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Lasciate stare il pettine se volete diventare atleti

Ho letto qualche giorno fa una frase non nuova ma sempre valida, in una intervista all'allenatore Gianni De Biasi pubblicata sulle pagine sportive del quotidiano "la Repubblica". De Biasi, centrocampista, ha avuto una lunga stagione al Brescia come giocatore, fra il 1978 e il 1983, collezionando ben 171 presenze in campo. Tornò poi alle "rondinelle" come allenatore per un paio di stagioni, avendo in squadra Roberto Baggio. Ha giocato e allenato in molte altre squadre, la Nazionale dell'Albania, per dirne una, tanto che gli è stata conferita la cittadinanza onoraria di quella Nazione. Il suo nome era fra i papabili per la Nazionale italiana, gli hanno preferito un altro, lui si è trovato una professione più rilassante: commentare le opache (per ora, sperano i calciomani) prestazioni degli azzuri davanti a un teleschermo.

Alla domanda dell'intervistatore "perchè l'Italia non trova più fuoriclasse", De Biasi ha risposto:"Oggi i ragazzi pensano più al pettine che al pallone, e se tua mamma ti porta il borsone o non ti lascia giocare con la pioggia per paura d'un raffreddore, la passione non ti viene mai. Non sono cattivi, sono contaminati dall'ambiente, preoccupati di emulare il capobranco, di seguire la tendenza. Vanno riabituati alla fatica: in questo sport vinci se hai la volontà di lavorare più dell'avversario. Gli spagnoli ci hanno superato perchè sin da bambini curano la tecnica e corrono di più. Da noi i ragazzi li allena il postino nel tempo libero perchè costa meno: non va bene". In tutti gli sport, chi lavora di più, ottiene di più.

La considerazione del pettine mi ha fatto venire in mente una frase che mi ripetevano talvolta i miei amici spagnoli Carlos, Paco e Félix quando osservavamo atleti nei molti, tanti, Campionati mondiali di atletica in giro per il pianeta: "Se mira demasiado en el espejo", si guarda troppo nello specchio, non farà grandi cose. Niente di trascendentale, intendiamoci, considerazioni di semplice buon senso. Le ragioni del calo generale - non solo in Italia - di grandi atleti di qualsiasi sport sono sicuramente più articolate e complesse. Vado, di tanto in tanto, in un impianto sportivo della provincia di Brescia dove operano, tra mille difficoltà, amici di un club di atletica. Circondati da campi di calcio, da scuole di pelota, da mamme e papà che accompagnano, portano i borsoni mentre i pupi con aria strafottente guardano o parlano al micidiale telefonino, stanno aggrappati alle reti come gli internati dei campi profughi. Ed è già tanto se non si lasciano andare a commenti sui metodi dell'allenatore, loro saccenti esperti di preparazione e tecnica.

Lo stesso avviene in quello che, almeno al momento, riconosco ancora come mio sport: l'atletica leggera. Il figlio è mio e lo alleno io, se per caso qualcuno azzarda a avanzare dubbi sul pupo, o se i giudici di gara non sono genuflessi alle esigenze del medesimo, dio ce ne scampi: scatta la rabbia diffusa dai cinquettii, dagli app e dagli upp. Poi vai ai mondiali e...zero tituli. Ma che t'aspetti? Domenica ero a Firenze per i fatti miei, partecipavo a una chiacchierata fra amici in una sala riunioni dello stadio di atletica. All'uscita, stava terminando una riunione con gare giovanili, ho inciampato su un allenatore giovane come me, uno che all'atletica ha dato tanto, ma proprio tanto. Dopo gli amichevoli scambi di battute, mi ha fatto una domanda:" Ma nel nostro sport esiste ancora la tecnica? E pensare che eravamo maestri...". Eh, sì: pettine, assurde creste da guerriero irochese, mamme / papà in veste di maggiordomi, allenatori desaparecidos. Non si va lontano.

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