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Enrico Berlinguer, lezioni di politica e morale

Enrico Berlinguer, 35 anni fa l'addio al leader più amato del Pci

Trentacinque anni fa moriva Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano. Al di là di questo, io, di più non so dire. Mi affido a maestri della Olivetti Lettera 32 di quel tempo. Giorgio Bocca, per me un Pontifex Maximus del giornalismo, scrisse nel ricordo: "Una brutta notizia, un dolore vero. Mi dispiace, per lui e per noi, povero Berlinguer. Forse quel che mi è sempre piaciuto di lui è la sua negazione, nell'immagine e nello stile, del sovietismo più tetro. C'è una stupenda fotografia di lui a Mosca, nel '76, fra Breznev e Suslov: i due sovietici in abiti scuri, il petto coperto da medaglie, i sorrisi ottusi, enigmatici, le facce smorte del potere mummificato e lui in mezzo, in abito grigio, la cravatta male annodata, i capelli ispidi come li disegna Forattini, le spallucce gracili, un passerotto capitato fra due mastini. Sì, è stato un gran conforto negli anni passati vedere alla testa del partito comunista uno come lui, non collocabile in una fotografia di gruppo del politburo e neppure nella Nomenklatura. O forse mi è sempre piaciuto in lui ciò che lo rendeva incomprensibile o anacronistico o magari ridicolo alla nostra politica contemporanea e, in parte, ai suoi stessi compagni, la moralità».

Tre anni prima Berlinguer aveva chiacchierato con Eugenio Scalfari, altro gigante di un giornalismo quasi del tutto perduto, Dio ce lo conservi a lungo con i suoi articoli della domenica sul quotidiano da lui fondato (quelli che non sanno mettere insieme il soggetto con il verbo e il complemento le chiamano spregiativamente «articolesse»). Ne era uscita una intervista su «La Repubblica» che è rimasta un pilastro per chi vuol davvero riflettere sulla politica e sulla moralità. Eravamo ancora lontani dal chiasso, utile ma disordinato, di Tangentopoli, ma c'erano nelle parole di Berlinguer le chiare anticipazioni di quella stagione di disastro morale. Quelli che seguono sono alcuni passaggi di quella storica chiacchierata.

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"I partiti non fanno più politica", mi dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega amara sulla bocca e nella voce come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella politica fino al collo: le pagine dei giornali e della tv grondano di titoli politici, di personaggi politici, di battaglie politiche, di slogan politici, di formule politiche, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dall'Alpi al Lilibeo...

"No, non è così", dice lui scuotendo la testa sconsolato. "Politica si faceva nel 1945, nel 1948 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine dei Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c'era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c'era lo sforzo di capire la realtà del Paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, n'era ricambiato".

Oggi non è più così?

"Direi proprio di no: i partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia".

La passione è finita? La stima reciproca è caduta?

"Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela; scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss"".

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

"È quello che io penso".

Per quale motivo?

"I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente: ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura dei vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti".

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

"E secondo lei non corrisponde alla situazione?".

Debbo riconoscere, signor segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del Paese da un pezzo.

"La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un Paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri lei pensa che gli italiani abbiamo timore di questa diversità".

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

"Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?".

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

"La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. Ma poi, quel che deve interessare veramente è la sorte del Paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi: rischia di soffocare in una palude. Ma non è venuto il momento di cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?".

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