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Un’editoria Robin Hood, ma al contrario

Daniele Poto torna a proporci un argomento a lui - e a me - particolarmente caro: il giornalismo sportivo. Pensavamo, tutti e due, che avrebbe interessato qualche addetto ai lavori, di oggi o anche di ieri, e che avremmo ricevuto qualche altro contributo in più. A parte Giorgio Barberis e Giorgio Lo Giudice, i quali han fatto il «mestiere» con passione e dedizione totale, silenzio assordante. Qualcuno mi ha telefonato per farmi partecipe delle sue tribolazioni, ma con messaggio ben chiaro:"lo dico a te, ma non scriverlo", vale a dire l'esatto opposto di cosa vuol dire essere gionalista. Altri fan finta di niente, anche se tutti i giorni devono ingoiare sterco. Comprensibile: devono tirare la paga per fine mese. Io dico: non è obbligatorio scrivere contro, si può analizzare, discutere, controbattere, sostenere che il giornalismo sportivo di oggi è all'altezza dei tempi, che si fa così perchè nessuno legge più. «Questa è la stampa, bellezza», per ricordare il titolo di un libro di Giorgio Bocca. Molte volte mi son sentito spiegare che non si può più fare il giornalismo sportivo di trenta, quaranta, cinquant'anni fa. E io chiedo: ma che prodotto fate oggi? Quello del «copia - incolla»? Della riscrittura dei comunicati stampa (magari firmandoli...)? Del «virgolette aperte, virgolette chiuse»? Non mi sembra che sia questo il giornalismo che paga, viste le vendite. Parliamo del giornale in carta rosa: paga forse lo sprecare tre - quattro pagine in fondo al giornale per parlare di politica, di economia, di miniaturizzare il mondo intero dell'informazione? Quelle che chiamano «Altri mondi». Paga forse dedicare una pagina a «pane vino e cucina», saperisapori, o «GazzaGolosa», per dedicare una sessantina di righe (misura per un articolo sportivo superimportante, capita raramente) alla meloncella, ortaggio «con il sapore a metà tra il cetriolo e il melone»? Non sarebbe invece più ragionevole, più produttivo per le copie vendute, dedicare queste tre - quattro pagine agli sport maltrattati che son poi quelli che quando ci sono i Giochi Olimpici, con le loro medaglie, fan credere che questo sia un Paese sportivo? Forse non farebbe vendere più copie, ma sarebbe professionalmente, eticamente e sportivamente, corretto. Macchè, meglio la meloncella. Se volete leggetevi le considerazioni di Daniele.

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Ci sono particolari che fanno la differenza. Trattamenti giornalistici che fanno capire come sia cambiata un’epoca. Vanno guardati senza nostalgia ma con la freddezza di chi osserva come sia cambiata la deontologia. Non c’è dubbio che nonostante la crisi «La Gazzetta dello Sport» rappresenti la punta più avanzata della diffusione dell’editoria sportiva in Italia. Il vecchio progetto dell’editore Amodei di riuscire ad eguagliare la corazzata con le vendite di «Corriere dello Sport» e «Tuttosport» non si è mai concretizzata. I dati di luglio 2020, che pure segnano una pur tenue ripresa di vendite e tirature di quasi tutti i quotidiani italiani, certificano che i due outsider viaggiano rispettivamente al ritmo di 46.000 e 39.000 copie quotidiane, guatando complessivamente molto da lontano la testata battistrada.

Osservo con una punta di raccapriccio che la mia gavetta nel quotidiano sportivo torinese avvenne con la pubblicazione dei tabellini e di qualche riga di commento siglato di partite di baseball. Che fine ha fatto questo tipo di pubblicazione sulla «Gazzetta»? Battute valide, inning? Per carità, al massimo i risultati nudi e crudi di una giornata di campionato. Un esempio, ma potremo citare l’hockey su prato, la pallamano, il tiro con l’arco, la canoa. L’infinita gamma delle decine di discipline legate a Federazioni piccole ma anche medie che in assenza di un campione o di uno scandalo vengono tassativamente ignorate perché non legate al filo rosso del preponderante calcio e poi a ruota di ciclismo-motori-sprazzi stagionali di atletica-basket-pallavolo. Una polverizzazione di spazi e di interessi che provoca la sparizione di un bel pezzo di quello sport di cui poi, alla fine, ci si ricorda solo in zona-Olimpiade. E quest’anno abbiamo saltato anche questo appuntamento…

Ma parliamo di atletica. Nell’esegesi della politica editoriale riservata a questa disciplina, dimenticata regina nel coro degli sport, la valorizzazione dell’aspetto tecnico era il primo requisito richiesto all’aspirante giornalista. Ora è stata fatta completa tabula rasa di questo aspetto. I Campionati italiani sono stati tradotti nella pubblicazione del primo classificato. Ora, tralasciando speculazioni filosofiche alla Velasco sulla “cultura della sconfitta”, appare evidente il pressapochismo riduttivo di questa spicciativa sintesi. Facciamo degli esempi che pure prescindono dai citati Campionati italiani e dal loro relativo svolgimento. Nei 100 godiamo di un bel binomio (Tortu-Jacobs). Che facciamo, quando gareggiano insieme ignoriamo il secondo classificato (in genere Jacobs) anche se ha siglato un gran tempo? E Sottile, possibile successore di Tamberi nell’alto sarà sempre un non pervenuto? Ignoreremo il ritorno nel triplo di Greco anche se arriva quinto in una difficile operazione di ripresa? Motivi etici si aggiungono a quelli tecnici, con gran rimpianto per i tempi in cui la pubblicazione dei risultati era integrale ed era poi la linfa riconosciuta che alimentava anno dopo anno l’Annuario della Fidal, le statistiche e la profondità dell’atletica nostrana. Appare chiaro che ora ci si rivolge a un lettore generalista che da questi risultati nulla abbia da chiedere o da pretendere, invitando gli altri, gli specializzati, a pescare da altra materia prima, fosse anche un’informatissima pagina di Facebook.

Un giornalismo da Robin Hood alla rovescia. Prendere spazi dalle discipline povere per darle ai ricchi, assecondando le tendenze più deteriori della possibile clientela. Dunque appare scontato che gli sport meno abbienti non debbano avere pubblico per scansare il contagio mentre si batte la grancassa dell’insufficienza della capienza del 25% per lo spettacolo calcistico. Un tormentone che ci accompagnerà a lungo e che finge di ignorare, per interessi di bottega, la grave recrudescenza del Coronavirus. Si sa, pecunia non olet. Anzi, nel caso di Suarez addirittura profuma. “Guadagna dieci milioni all’anno, come fai a bocciarlo?”.

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