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Un virus vecchio come il mondo: la notorietà

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Da una lettera di un lettore pubblicata un paio di settimane fa su «L'Espresso».

"(...) Alzi la mano chi ha sentito in tutti questi mesi, una sola dichiarazione su un singolo aspetto, sul quale tutti (o almeno la maggior parte) fossero d'accordo. Quindi è a questo che ci siamo ridotti? Dobbiamo scegliere, da profani, se seguire gli scienziati catastrofisti oppure quelli meno. Magari in base a come ci siamo alzati (...)".

Della risposta di Stefania Rossini, misurata, elegante, intelligente, trascrivo solo le righe finali che son perfette, a mio modesto modo di pensare.

"A parte i due virologi da lei citati (...) ci sono schiere di scienziati ormai irrimediabilmente colpiti da un virus non letale ma disgraziatamente incurabile: quello della notorietà".

Serve aggiungere inutili (miei) commenti?

Omaggio a una elegante signora settantenne

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Sulle acque del lago di Garda e sulle terre che lo circondano è, da molti anni, tutto un rincorrersi di miglia: vuoi marine per navigatori, vuoi terrestri per i praticanti dello sport podistico. Dunque, miglia inglesi - loro devono sempre far diverso dagli altri - come unità di misura, anche se acqua e terra esprimono conversioni metriche diverse: su acqua il miglio marino si indica in 1.852 metri, ma è una media operata con calcoli matematici e arrotondata; per la terra tutto più semplice: metri 1.609,344. Per vero, il ricorso alla unità di misura adottata dai britanni, in terra bresciana, risale al 1927 con la nascita di una forsennata corsa su e giù per l'Italia di ricchi signori e di piloti di professione a bordo di auto dal fascino irresistibile: era la «MilleMiglia». Ma qui parlo di lago.

1951: all'anagrafe sportiva del Comune di Gargnano venne registrata la nascita della «Centomiglia» velica, padre legittimo il Circolo Vela Gargnano. Per la terra ferma un nuovo nato migliarolo - «Diecimiglia del Garda» - si fa collocare al 1987, ma è una creatura già nata prima (1974) che cambia solo il cognome. Ci fu perfino un pallido tentativo di lanciare una gara sulla distanza del «Miglio», lo chiamarono il «Miglio Olimpico», ma non fece a tempo a uscire dall'incubatrice. Gli altri due son figlioli resistenti, che, a parte qualche raffreddore, ancor oggi godono buona salute: la creatura velica ha celebrato i 70 anni, gratificata da una bella giornata di sole; quella pedestre, pur con mascherine, liquidi igienizzanti e percorso striminzito, ha doppiato i 47 anni. E tutto ciò va ascritto a merito degli organizzatori: il Circolo Vela Gargnano e il Gruppo Sportivo Montegargnano, fra i due in linea d'aria non più di tre chilometri, forse meno.

Ho volutamente abbinato le due manifestazioni sportive, prima di tutto perchè meritano ugual rispetto e apprezzamento, pur nelle intuibili differenze. Ci fu un momento, era tanto tempo fa, che pareva perfino che le due entità organizzative avessero la volontà di cooperare alla ricerca di un terreno comune per fare tratti di percorso insieme. Fu una bella illusione, qualche timido tentativo di prova d'orchestra, ma poi non se ne fece nulla. Hanno comunque camminato, ognuna per la propria strada, nel rispetto reciproco, ripeto il termine.

L'augurio che mi faccio, e che faccio a loro, è di poter contare tante altre edizioni ancora. Il vero traguardo, conclusa una manifestazione sportiva, è l'edizione successiva, e poi un'altra ancora, e ancora, e ancora. Guai pensare di voler scrivere in anticipo la data di morte. Significa che si è già morti. 

Chiudo. C'è una cosa che mi fa rabbia della «Centomiglia»...ed è che è più giovane di me! In alto il Gran Pavese, uomini e donne di acqua dolce, lacustre. E come omaggio tre belle foto dei giorni scorsi, senza tante altre superflue parole.

Settembre 2020: con la faccia di Lee van Cliff

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Voglio immergermi nella serenità di questa immagine che illustra il mese di settembre del calendario che ideai con altri amici come omaggio alla terra dove vivo stabilmente da circa quattro anni. Cerco in questa immagine la forza interiore per convincermi che il nostro Paese troverà energie morali per uscire dal pantano in cui sta affondando come nelle sabbie mobili. Ma ci credo poco, mi sforzo, ma ci credo sempre meno. In questi giorni, dovendo, per forza, mettere la testa fuori dalla mia tana, mi son guardato attorno e ho visto che non c'è stato nessun miglioramento, semmai un marcato peggioramento. Altro che l'ingenuo, ridicolo «saremo migliori» degli inizi della paura per il perverso virus che nessuno è stato capace di domare. Va aggiornato: «siamo molto peggiori» di sette, otto, mesi fa. Chi rubava ha continuato a rubare, e ruba a man salva, chi è abituato ad approfittare lo fa ancor più sfacciatamente, e a pagare son sempre i più deboli. Non sono bastati i morti di marzo, aprile, maggio, no, ce ne vogliono altri, tanti altri. E ci saranno, oh sì che ci saranno. Alla faccia dei gaglioffi (bel sostantivo riesumato in una intervista dalla professoressa Elisa Fornero, la tanto vituperata, insultata, «asfaltata», ministra Fornero) che ci dicono che non esiste nessuna malattia. Gaglioffi, i quali, mentre negano, al tempo stesso sono alla ricerca degli «untori», come nel buio Medioevo delle streghe: gli immigrati, i ragazzi delle discoteche, coloro che son andati a far le vacanze all'estero. Ah, parola magica: vacanze, raccontano che son stati 35 milioni gli italiani con le chiappe al sole. Non male, per un Paese in miseria, specie i ristoratori, poveretti...io ne ho incontarto uno e ho cercato di aiutarlo in questa sua momentanea miseria: accaduto venerdì scorso, un piatto di pennette al sugo di pomodoro per un bambino pagato 15 euro, dopo averlo rapinato di 2,50 per il servizio e di 3 per una bottiglietta di acqua pseudominerale. Mah, ci avevano assicurato che saremmo stati migliori. E magari più onesti, no?

Mi son venuti in mente i titoli di due film. Ci siamo lasciati alle spalle da poche ore il mese di agosto. Lo identifico con il film «Titanic»: la nave affonda ma gli imbecilli, gli strafatti dall'alcol e dalla cocaina, continuano a ballare. Dobbiamo affondare? E affondiamo, almeno ubriachi, drogati e incoscienti. L'altro titolo, per il mese di settembre, lo prendo a prestito da una pellicola degli anni '60, un western: «La resa dei conti», con Lee van Cliff e Tomas Milian, immancabili musiche di Ennio Morricone. 

Ce la faremo, stava scritto da tutte le parti. Stava, adesso in giro di cartelli così ottimistici ne vedo molti meno.

La nostra foto - Dove: Briano - Apparecchio: NIKON D850 - Lunghezza focale: 48.0 mm - Ottica: 24.0 - 70.0 mm f/2.8 - Tempo esposizione: 1/30 - Diaframma: f/11.0

Il valore delle discoteche nell'economia italiana

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I tasti del portatile di Luca Bottura sono imbevuti di acido solforico. Luca Bottura compila una rubrica settimanale su «L'Espresso», la miglior rivista di politica, società e investigazione giornalistica che si pubblichi nel nostro Paese, senza ombra di dubbio (mio). La rubrica l'han titolata «L'Incompetente». Credo che il sarcasmo, oppure la più pacata ironia, o le più dolorose rasoiate, che fanno parte del bagaglio di Luca Bottura, furono succhiate col latte materno nel biberon made in Bologna. Nacque nella città felsinea, il Luca Bottura, capitale di quella Emilia Romagna che ha fatto dell'ironia e del sarcasmo una disciplina dell'intelletto umano, al pari della filosofia, della psicologia, dell'ermeneutica (in questa speciale accezione, non dei testi scritti ma di quelli parlati). Alla Alma Mater Studiorum, l'antichissima (1088 dopo Cristo) Università di Bologna hanno istituito un corso di «Fenomenologia dell'ironia». Ingenuo chi ci crede. Il nostro Luca Bottura è comunque, esista o no la fantasiosa cattedra, un Emeritus, un Professor Emeritus, il top della cattedraticità.

Sul numero 35 della rivista citata ho letto un pezzo di bravura del nostro autore. Titolo «Locali miracolosi».

"Io non ho nulla contro le discoteche, io...No: in realtà io non lo sopporto, le discoteche. Non per loro, poverine. Per come ci sono stato le rare volte che le ho frequentate. Da ragazzo, quando entravo gratis per essere scaricato alla voce «tappezzeria». E da adulto. Quando agli albori del lavoro da scrivano del video, fui trascinato un paio di volte in un noto locale di Milano, quello davanti a cui Bobo Vieri si fece ciulare il Cayenne lanciandone le chiavi a un tizio che credeva fosse il parcheggiatore. Una di quelle discoteche...come definirle: ferroviarie. Piene di binari. Non interessandomi i quali, risultavo a mio agio come un cinghiale a Norcia. Poi per carità, ognuno ha il diritto di regalare parti del proprio corpo alla ricerca: il cervello, le orecchie, il fegato, le narici, la zona sublinguale. Però già mi stanno sui maroni le Golf Nere che passano con la techno a palla. Non vedo perchè dovrei pagare per frequentarne una. Ciononostante riconosco il valore delle discoteche per l'economia italiana. È un comparto che, parola di chi ne detiene le sorti, sta buttando via causa il lockdown, ora prolungato da Contebis dopo mille tentennamenti, una cifra di quattro miliardi di euro. Fate conto che la Ferrari in un anno ne fattura 3,4 e paga le tasse su 3,4. I gestori di discoteche che, cifre ufficiali del Sindacato Italiano Locali da Ballo, hanno appena perso quattro miliardi di euro, nel 2018 ne hanno fatturato uno. Ora i casi sono tre: o questa estate in soli tre mesi si sarebbe accalcato sulle piste il 400 per cento dei frequentatori precedenti, o il Silb spara cifre ad minchiam per ottenere i buoni uffici del Tar del Lazio, cui si è rivolto per far sospendere la chiusura decisa dal governo, oppure...Ecco: c'è una terza ipotesi che non voglio nemmeno prendere in considerazione, e cioè che le discoteche abbiano comunicato perdite realistiche ma che fossero leggermente meno verosimili (diciamo dieci volte meno, proiettando il dato su base annua) le cifre dichiarate al fisco. Ma non può essere così, perchè saremmo di fronte a un'autodenuncia talmente clamorosa che forse manco in Italia".

Giriamo il dubbio ai bravi militari delle Fiamme Gialle. Per intanto, bravo Luca Bottura!

I girasoli di van Gogh e quelli di Gianni Mura

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Ho vergato, stamane, qualche riga di presentazione di questo libro nello spazio che ho chiamato «CARTASTORIE», dove dico la mia - che interessa solo a me - su libri che leggo, insisto: solo libri che leggo. Raccolta ben selezionata e ordinata di scritti di Gianni Mura, che è andato in fuga qualche mese fa, e non è più stato raggiunto. Scritti di ciclismo e di ciclisti, di panorami  e di amori, di vizi e di virtù. Certo Gianni doveva avere dei santi protettori molto influenti in cielo per aver ricevuto in dono questa eccelsa dote dello scrivere. Queste pagine ne sono testimonianza. Date retta a me, per una volta: andate in edicola e spendete nove euro e novanta centesimi per comprare questo libro. Poi, con calma, lo leggete, anzi i capitoli che vi piacciano leggeteli due volte. Soprattutto ho l'ardire di consigliarlo a chi prende la paga a fine mese in un giornale, cartaceo o online che sia. Fiato sprecato, meglio passare il tempo sulla pattumiera/pattumiere in rete.

I racconti del Tour e del Giro li lascio a chi vorrà leggerseli, ammesso che...Vi affido invece due istantanee, una che viene dal passato (1967, Mura aveva 22 anni), la seconda da tempi recenti.

"...io stavo zitto perchè non avevo nulla da dire. Sull'Opel Caravan celeste mutanda, Gazzetta dello Sport scritto in bianco sulle fiancate, al volante Ezio Graziani, omone bustocco dall'aria da orco, in realtà buono come il pane, già giocatore di rugby. A destra Bruno Raschi, detto il Divino Maestro, prima firma, riusciva a scrivere a mano su un grande taccuino anche nella discesa del Tourmalet, mai capito come facesse. Dietro di lui Rino Negri, seconda firma, detto il Cardinal Colombo della pedivella, anche lui riusciva a scrivere nella discesa del Tourmalet, a macchina però, mai capito come facesse. I soprannomi li aveva dati Graziani . A fianco di Negri io, ragazzo di bottega e al momento senza soprannomi. Riuscivo a scrivere solo giù dall'auto e dovevo andare veloce per non restare indietro. Il soprannome l' avrei avuto più in là, a Colmar". Glielo diede il Graziani vedendolo passare bagnato fradicio, loro al ristorante, lui a spasso per Colmar:"Tel lì l'anadròn", guardalo lì l'anatrone.

Queste righe le ho rapinate da una intervista a Mura messa, con altri pezzulli, a chiusura del libro. Poi vi dirò perchè ho deciso di copiarle.

"Molti direttori di giornali non credono più nel pezzo lungo e scritto con un buon italiano perchè dicono che la gente non ha tempo di leggere e invece non è vero. Io ho sempre sostenuto che questa fosse una balla, se uno vuole il tempo lo trova. Dipende cosa dai da leggere ai lettori. Non è che ha perso fascino il racconto, l'ha perso presso quelli che spesso fanno i giornali e decidono come farli. Questo è purtroppo". Non posso aggiungere altro perchè lo direi molto peggio. Aggiungo solo un morso astioso: piantetela di contar cazzate, signori giornalisti. La teoria che i pezzi devono essere 40 righe, max, ve la siete inventata voi per far sempre meno, e avere il tempo a vostra disposizione per le comparsate (ben remunerate, in tv), per agganciare editori cui rifilare i vostri libri, per scimmiottare gli opinionisti sui vostri a-social personali, per andare a prendere i bambini a scuola, e via elencando. Ci sono dei signori direttori che passano molto più tempo in sala trucco e negli studi televisivi che non in redazione. Ma gli editori son contenti. E allora perchè piangere sui giornali che stan morendo?

Il giornalismo visto da Gianni Mura

- Sei uno degli ultimi pionieri, se non l'ultimo, dei pezzi «di colore»: che succederà quando smetterai di scrivere sul Tour?

"A me che sarò molto più triste, al resto del mondo non me ne frega più di tanto. Io spero che continueranno a esserci pezzi di colore perchè credo in questo tipo di giornalismo che è un giornalismo più lungo che corto, più umano che superumano. Di Pantani avevo detto che sembrava uno che aveva rubato la bici e aveva bigiato scuola. Credo che proprio la retorica l'ho schivata. E quindi per questo tipo di giornalismo mi dispiace. Forse rispunterà quando tutti si saranno stufati di leggere dei pezzi che sembrano dei verbali di polizia stradale e forse ci sarà qualcuno che riporterà in alto il genere. Non si ritiene più necessario mandare al Giro giornalisti-scrittori com'erano Buzzati e Pratolini, è più facile che li mandino per un Mondiale di calcio. Io vedo un barlume di speranza in questo senso: questo tipo di giornalismo, a tanti o a pochi, per quanto mi risulta ancora a tanti, continua a piacere. Ma è abbastanza difficile tenerlo in vita. Pratolini o Gatto erano sempre l'inviato in più, di letteratura, rispetto all'inviato ciclistico. Io ho potuto tenerlo in vita perchè ho fatto il triplo inviato in una persona sola, quello che chiamo «effetto spugna»: faccio la corsa, l'essenziale delle interviste e se c'è del colore ce lo metto. Una persona costa meno di due come inviato. Il fatto che io parli dei girasoli è perchè essendo lì sento il dovere di dare qualcosa di quello che vedo. Le fasi della corsa il lettore le ha già viste. L'importante è rispettare l'importanza delle cose, per cui se c'è una tappa veramente «a tutta» possono anche esserci 700 chilometri di girasoli e io ne parlo appena; se non è successo un cazzo e devo fare un minimo di 85 o 90 righe allora ci metto anche il paesaggio".

Girasoli. Ci ricordano quello enorme di Antoon van Dyck, i vasi di Vincent van Gogh, e poi Paul Gauguin, Gustav Klimt, Egon Schiele, la poesia di Eugenio Montale. Ci ricorderanno sempre Gianni Mura.

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