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Il carpione scampato alla graticola, ringrazia

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Mi fa davvero molto piacere offrire alla moltitudine di lettori dell' «Eco del Pizzocolo» un nuovo interessante e garbato scritto di Enzo Gallotta, dopo la bella narrazione delle vacanze di Sir Winston Churchill sul lago di Garda nel 1949. Stavolta c'è di tutto: c'è un sant' uomo che si ritirò in eremitaggio in una montagna gardesana, sponda bresciana (con vista lago, però, come le stanze con sovrapprezzo dei migliori hotel...), ci sono miracoli, storie e leggende, c'è perfino un po' di storia ittica. E ci sono tradizioni che, per cause contingenti, non verrano rispettate. Nemmeno Sant'Ercolano ha potuto farci niente. 

Nel ringraziare Enzo del suo nuovo contributo, esprimo il desiderio che questa bella collaborazione continui. Il nostro lago ne ha da raccontare...

  

Il filo d'acqua che scorre, fresca di zampillo, nella vecchia fontana dell'orto. A godere del rinfresco in agosto pieno una tonda anguria. Nella casa di mio nonno, Pino, calzolaio di mestiere per tradizione familiare e pescatore d'elezione, era questo il segno della festa in arrivo. Era atteso al sacrificio suo e annunciato sulla tavola nostra il verdeggiante anguriotto per il giorno del Patrono di Maderno e della Riviera benacense. Era festa grande, una volta, al paesello mio per il nostro Santo. Sono sopravvissute, sul lungolago, le bancarelle. Che ora ostentano dolci d'altre terre, zucchero filato e peccati di gola senza risparmio. Per la prima volta da tempo immemore non ci saranno, quest'anno, i fuochi d'artificio. Nessuna pioggia a cascata di luci effimere sul golfo nella sera della vigilia, l'11 agosto, per la moltitudine con il naso all'insù. A questo ci costringe il virus latente e fetente. Per necessario provvedimento intrapreso per tempo dalla Casa comunale. Per evitare rischi sanitari da assembramento, trasferte a vuoto ai turisti e avventure notturne a quanti sono soliti assaporare i colori dei fuochi dai posti di riguardo in prima fila offerti dalle barche.

 È il 12 agosto, il giorno della festa di Sant'Ercolano. Una volta la scrivevano con la H ad anticipare la vocale d'inizio. Chi sia stato il Santo ve lo racconto di seguito e qui, a modo mio, con qualche incursione nella Storia e nelle storie che trovano eco complice nelle brezze che accarezzano le onde del lago. Era figlio di buona famiglia, l'Ercolano nostro. Altri santi portano questo nome. Ma il “nostro” fu davvero unico. Teutonico d'origine, battistrada dei conterranei di terre a settentrione, venne nominato vescovo di Brescia nel VI secolo. Spirito solitario, non resse a lungo la vita del canonico di rango in quel Cinquecento foriero di secoli bui. E si ritirò in eremitaggio a Campione, all'ombra della falesia. Luogo al tempo ancor più discosto di quanto non sia oggi. Qui, in preghiera e meditazione, si conquistò la fama di santo uomo. Si narra parlasse ai pesci e agli uccelli, antesignano del Santo d'Assisi. Si dice pure che un guizzante pescetto finito sulla graticola venne da lui salvato e rimesso in acqua trovasse nuova vita. Portandosi dietro i segni del ferro rovente. Ed ecco spiegata l'origine del carpione, salmonide che si pesca solo in queste acque profonde.

Ercolano, antesignano del più noto Celestino V e come questi protagonista di un “rifiuto” clamoroso in anticipo di oltre mezze secolo sul noto “concorrente” ricordato dal Sommo Poeta, si meritò fama in ogni angolo del lago. Quando i suoi giorni si conclusero, nel 576, lo vollero “santo subito”. Le spoglie dell’eremita furono oggetto di contesa tra i diversi camapanili. Al punto, dice la leggenda, che si decise di affidarle ai venti e alle onde per dirimere la questione insorta sulla loro custodia. La barca con i resti mortali di S. Ercolano approdò quindi sulle rive del lago a Maderno. Dove ancora oggi lo ricorda la lapide protetta da una bassa inferriata che interrompe la passeggiata a lago, in piazza. Ne abbiamo una sola: quella intitolata a San Marco. Oggi battuta dal traffico dei vacanzieri.

Custoditi a lungo nella pieve romanica edificata intorno al XII secolo, i resti del Santo vennero traslati nella chiesa parrocchiale, di fresca edificazione, il 25 ottobre 1825. Qui si trovano ancora oggi, in una cappella laterale sulla destra del tempio dedicato a S. Andrea.

A lui è dedicata la statua che ha peregrinato, suo malgrado, almeno in due punti diversi della piazza. Prima davanti alla chiesa monumentale, poi di fronte alla parrocchiale. L'epigrafe ricorda la protezione che il Santo concesse al paese in occasione di un'epidemia di tifo, nel 1836. Un'altra scritta nel marmo rosso di Verona racconta le umane vicende di Ercolano a fregio della cappella sua originale, in chiesa “vecchia”, che è oggi – guarda caso – intitolata a San Francesco... Al nome del Santo in paese non si ricorre più per l’onomastico. Non ci sono ragazzi che ne portano il nome. Ne conosco uno solo e di anni ne ha visti ampiamente settanta. Così è stata pure la sorte della banca, confluita nel mare magno delle fusioni ante litteram.

Ci aspetta e la attendiamo, noi madernesi, questa festa del Santo nostro. Cui le pie donne ricorrevano in articulo mortis nei tempi che furono. Si recavano dove oggi c'è la lapide che ricorda l'approdo della barca e attingevano dal lago l'acqua per portare conforto agli infermi.

Queste le storie. Il 12 sarà festa vera. Pur in assenza di fuochi d'artificio. Ci sarà il Vescovo, sarà benedetto il lago con il posto del fatidico spiaggiamento. Il Santo, di questo siamo certi, continuerà a vegliarci dall'alto del suo piedistallo. Di quella fontanella con l'anguria in fresco, al riparo di un ribes selvatico, mi resta l’immagine non sbiadita dal tempo: un ricordo caro. Che ne fa affiorare altri. Insieme ad una briciola di nostalgia.

Agosto 2020, con le pinne fucile e occhiali...

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...quando il mare è una tavola blu...Edoardo Vianello ci accompagnava lungo la Via Emila direzione Rimini con queste strofe. Era il 1962. La canzone di Vianello si alternava alle melodie di Nico Fidenco, «Legata ad un granello di sabbia», e alla numero uno della mia personale Hit Parade: «Cuando calienta el sol», che tutti pensavamo spagnola e invece...e invece era stata composta da un nicaraguense, Rafael Gaston Perez, da un cubano, Mario Rigual, e da un argentino, Carlos Albert Martinoli, e fu portata a grande successo internazionale dal complesso cubano Los Hermanos Rigual. E poi venne (1963) Fred Bongusto con la sua «Una rotonda sul mare», melodia da cuori già infranti o pronti ad esserlo. Serate al tavolino riservato ai musici del Caffè Concerto Mocambo, a Rimini, su un angolo della grande Piazza Tripoli, dove cantava, con la sua voce melodica alla Claudio Villa, mio cugino Nuccio, che faceva innamorare tutte le tardone che affollavano i posti a sedere del vasto dehors dell'hotel adiacente. Io per guardagnarmi le mie due bibitine a serata, fra le nove e mezzanotte, tenevo il bordereau delle canzoni per il pagamento dei diritti d'autore Siae. A mezzanotte in punto non appariva Biancaneve ma inesorabile la sigla di chiusura con gli ultimi melodici gorgheggi di mio cugino, e poi, via: pizzeria nella pineta di Rimini, vicino all'aeroporto, che allora doveva essere solo militare, e, per finire, con il gruppone variopinto dei miei amici all Italians, tutti più grandi di me, a far notte fonda, spesso, all'Eden Rock Romantico di Gabicce Monte. Ho verificato che esiste ancora, ma come ristorante di gran tono.

Bei tempi, non c'erano i selfies, i telefonini, i whatsapp, i politici rompicoglioni (almeno il telefonino lo puoi spegnere, questi mai), Riccione e il suo  mitico Viale Ceccarini, poi reso immortale dalla canzone di Dino Sarti. C'erano favole metropolitane sui mariti cornuti in città, barzellette, lazzi e frizzi, signore disponibili (ebbene sì) signorine un po' meno, altro mito quello delle nordiche, che poi voleva dire da Rovereto in sù, tutto era Nord, con predilezione delle bianchissime, biondissime, slavatissime, svedesi: il top dei bagnini linguacciuti che si beavano a raccontare (e a inventare) storie di amori travolgenti e prestazioni sessuali da far impallidire il Kamasutra:«Te, patacca, non mi credi? Sì, se proprio lo vuoi sapere me l'ha data!». Mi fa venire in mente lo zio Lallo, il gagà nullafacente del capolavoro felliniano «Amarcord» nella scena del Grand Hotel di Rimini. Tutti amori, veri o presunti, finiti sul binario 2 della Stazione di Rimini...per Rivazzurra, Marebello, Miramare, Igea Marina, Bellaria, Viserba, Viserbella, Torre Pedrera, coincidenze sul piazzale delle corriere. Ma che bel mondo era! I delinquenti, i ladri c'erano anche allora, nei villini affittati per la famiglia in vacanza qualcuno entrava a sgranfignare quel che trovava; nelle pensioni la boccetta del profumo Pino Silvestre perdeva di intensità giorno dopo giorno, annacquato dalla cameriera che aveva ricevuto l'invito dal signor Giuliani, un cumenda milanes, quello tanto distinto, tutto solo del tavolo d'angolo, ad andare al «Mocambo» a bere una cosa e ad ascoltare quel Cattani che el par el Villa. E giovedì sera per cena il mitico piatto freddo, quattro fette di salume intirizzite dal sottozero del frigo dove erano state messe già al mattino. La domenica lasagne, tranquilli facciamo un secondo giro! E poi il giorno del fritto misto di pesce, gli spaghetti con le telline, il prosciutto e melone, che rinfresca. «Signora Luisa, el suo nipote, qua, el mangia trop, vuol sempre doppia razione. Alla fine dovremo un po' vedere, un' integrazione perchè sem fora del prezzo concordato per la pensione completa».

Adesso, COVID-19 Era, ci raccomandano i villaggi in campagna, lontani, poco frequentati, anzi meglio se deserti. Non è lontano il giorno che i nostri borghi di montagna saranno dimora solo di fantasmi. E allora teniamoci strette almeno le immagini. Come questa scattata dai miei amici Chantal, Pietro e Marco per il Calendario 2020: la Chiesa di San Bartolomeo Apostolo, a Costa, la frazione più lontana del Comune di Gargnano. E sempre meno abitata.

La nostra foto - Dove: Vallata di Costa, Chiesa di San Bartolomeo Apostolo - Apparecchio: NIKON D4S - Lunghezza focale: 70.0 mm - Ottica: 24.0 mm f/2.8 - Tempo esposizione: 1/500 - Diaframma: f/13.0

Siamo ciò che conserviamo, parola di Picasso

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Stavo salendo una scala e facevo attenzione a dove mettevo i piedi. Alzando lo sguardo una visione mi ha distratto, fulminato, forse ho vacillato. Era da tempo che non mi soffermavo su un dipinto, su «quel» dipinto, con tanta intensità. Mi son seduto sugli scalini, ed ho osservato quei colori. Anche senza chiudere gli occhi, il motorino chiamato fantasia ha fatto contatto e si è messo a ronzare sommesso. A quella tela, 140 centimetri per 60, acrilico su tela dice l'artista, fu dato un nome profetico: «La Creazione», e aveva una numerazione, numero 4. L'anno, 1988. L'autore: Martino Gerevini, un artista del quale Bruno Munari (sapete chi è? No? Andate a cercare il suo nome sul vostro tablet, e forse qualcosa imparerete su questo gigante dell'arte moderna) scrisse:"Le sue opere non sono una stilizzazione di un mondo esteriore, ma sono la visualizzazione di sensazioni nel proprio mondo plurisensoriale. Non sono quindi «riproduzioni» di qualcosa che già si conosce...ma sono da guardare come quando si ascolta una musica. Capire attraverso i sensi invece che con domande e risposte". Munari aveva una grande stima per l'artista Gerevini, ma soprattutto per la persona. E così avrebbe dovuto essere per tutti: Martino era un prezioso distillato di umanità, di cultura, di operosità, infondeva serenità e tranquillità in chi lo avvicinava, vuoi per lavoro, vuoi per amicizia. Io ringrazio Dio che me lo ha fatto conoscere e frequentare per trentasette anni, un dono raro, che custodisco gelosamente. 

Quel quadro ha una storia, sua e mia. Era il frutto di uno dei «momenti creativi e innovativi» dell'artista Gerevini, che non si è mai ripetuto, ha sempre esplorato nuovi modi di esprimersi, materiali nuovi ma vecchi (il legno dei caratteri di stampa, i ritagli di carta delle lavorazioni tipografiche), ha sondato le opportunità che offrivano le nuove tecnologie, purtroppo ha avuto poco tempo. «La Creazione n.4» faceva parte di una nuova «linea» datata 1988. Conosco, da vicino, un tale che in quella tela disse di vedere il lago, il Montegargnano, l'abitato di Navazzo. Martino, che era tanto buono, non lo contraddisse e lo assecondò perfino quando il temerario insistette per «promuovere» (beh, insomma...) quell'opera artistica a copertina di una gara podistica che si era andata trasformando da simpatica festa paesana a format internazionale. Proprio nel 1988 l'iniziativa pedestre mutò pelle: la 15esima edizione de «La Camináa» divenne la prima della «Diecimiglia del Garda». L'opera pittorica «La Creazione n.4» diverrà logo, immagine (sostantivo che piace moltissimo ai moderni, tutto è diventato immagine, senza sostanza) della corsa di Navazzo, l'anno dopo, nel 1989. E le copertine del programma ufficiale erano curate dallo stesso Gerevini, che metteva igual impegno sia che facesse un depliant sportivo sia che preparasse le opere da esporre alla Galleria L'Espace du Triangle a Parigi. Spesso quell'opera fu esposta nelle «personali» del'artista, e figurava nei cataloghi che accompagnavano le sue mostre. Perfino la copertina del programma di una «Diecimiglia» figurò in un catalogo (AAB Edizioni, 1996): con quell'accostamento, Martino volle rinsaldare il legame fra il suo lavoro quotidiano di grafico alla Tipografia Apollonio e la sua vena artistica. E lo fece tante altre volte.

Che mi succede? Dietro a quei colori ne intravvedo altri. Non più pitture adesso, ma colori troppo vivaci di magliette e mutandoni/mutandini di uomini e donne che corrono, sudano, spesso sono stravolti dal caldo che rende la fatica ancor più faticosa, e sgraziata. Ho chiesto di riavvolgere la pellicola, e mi son apparsi, in trasparenza, i volti di tanti corridori cui sono stato affezionato. A un certo punto, c'è stato un fermo immagine, ed è apparso il sorriso di una mamma, e il sorriso di una mamma per la sua creatura non ha eguali. Leah Tanui alza nel cielo di Navazzo il suo ultimo «prodotto», la piccola Miriam. Leah, una donna di superiori qualità, moglie di Moses, lui correva in giro per il mondo, ma lei stava a casa ad amministrare oculatamente i dollari che il marito atleta riportava al focolare, ad Eldoret; poteva amministrare una azienda, non solo una famiglia. Leah, cui mi legava affetto per il tanto tempo passato nella loro casa, laggiù, nella ammaliante Rift Valley. Leah, che se ne è andata, dopo breve malattia, nell'agosto del 2008: lo seppi mentre stavo nel mio ufficio dentro lo Stadio Nazionale di Pechino, il famoso Bird's Nest, nido d'uccello, e mentre si avvicinava l'apertura dei Giochi Olimpici.

E dietro i volti di Leah e di Miriam, quello sempre molto sorridente, salvo quando s'incazzava, di Moses Tanui. Un grande amico, un guerriero, un lottatore; lo chiamavo «Simba», leone vero non da cartoni disneiani. Ho dei ricordi bellissimi di lui, uno su tutti: le cene che faceva apparecchiare e servire nel suo ufficio in segno di grande rispetto per i miei amici Gianni Gianluppi, Carlos Fernández Canet e Jean Pierre Durand, e per me, quell'anno che girammo in lungo e in largo per la Rift. Serate indimenticabili, e Moses incantava i miei amici con le sue espressioni italoinglesi. Sportivamente, sapete chi è stato Moses Tanui nel mondo della corsa lunga e della maratona? No? Peccato, documentatevi. Sotto l'immagine della madre e della bimbetta, le scene cambiano. Un podio, Moses, al centro, alza le braccia del brasiliano Artur Castro e del suo connazionale Paul Tergat; sotto l'arrivo di Moses. Era il 1992. Questa era la «Diecimiglia del Garda», fra arte e arte del correre.

D'improvviso lo schermo si fa nero. Poi si riaccendono le luci. «Operatore ridammi il mio film», ma ormai se ne è andato, una sola proiezione come una volta nella sala del cine parrocchiale. Nel mio personale «Cinema Paradiso» le luci si sono abbassate, e io sono da solo. Ma non voglio andarmene, rimango seduto sugli scalini. Osservo la «La Creazione n.4», la luce che irradia dall'alto, Dio quando si è messo di buzzo buono per creare l'universo doveva essere immerso nella luce. «Siamo ciò che conserviamo», ha scritto Pablo Picasso, materialmente o spiritualmente. Io mi ostino a conservare quelle immagini: Martino, Leah, e tutto il resto che, di questa avventura, mi è rimasto dentro.


L'arte di tacere, dedicata al signor Andrea Bocelli

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L'Abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart, vissuto ad Amiens fra il 1716 e il 1786, era un po' birichino. Colto, intelligente, ma troppo mondano per le gerarchie lungosottanate. Ed ebbe i suoi grattacapi, soprattutto quando scrisse, era il 1749, un libello dal titolo che puzzava di zolfo: «Trionfo del sesso». Più di ventanni dopo, siamo adesso nel 1771, uscì, a Parigi, «L'art de se taire», l'arte di star zitti. Io ne ho una copia, pubblicata nel 1989 in quei piccoli gioielli stampati da Sellerio editore Palermo, non un commerciante di libri ma un moltiplicatore di cultura (notate che non scrive editore con la lettera maiuscola ma minuscola). Dopo quello che ho letto sui giornali in questi ultimi giorni, con non poco fastidio, ho deciso di riprendere il librino, di rileggerne qualche brano, e di dedicarlo al signor Andrea Bocelli, il quale, a mio sommesso avviso, ha perso almeno un paio di occasioni per stare zitto. Chi conosce di cosa parlo, non necessita di spiegazioni; chi non lo sa, fatti suoi.

Voglio solo aggiungere che non ho in antipatia il signor Bocelli. Il problema è molto più ampio: non è solo quello di tacere e di evitare di dire scempiaggini, ma, dopo, una volta sparate cazzate, smetterla di piagnucolare «Sono stato frainteso...», «Colpa dei giornalisti...» (che pure so' na bella razza), «Non ho detto così, queste non sono le mie parole...» (oramai, tutti hanno le registrazioni anche dei sospiri, i video, e così la figura di palta si raddoppia, triplica, perchè te le fanno risentire e tu rimani come un fesso). La risposta migliore è quella dei veneti che, da millenni amano commentare sarcasticamente, fra una ombreta e l'altra: «xe pèso el tacòn del buso». Me par, che è esattamente quanto è successo al signor Bocelli. Al quale dedico, qualche aurea regoletta del Capitolo primo, Parte prima, dello scritto del mio amico sciupafemmine Abate Dinouart. Si intitola «Principi necessari per tacere».

1. È bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio.

2. Esiste un momento per tacere, così come esiste un momento per parlare.

3. Nell'ordine, il momento di tacere deve venire sempre prima: solo quando si sarà imparato a mantenere il silenzio, si potrà imparare a parlare rettamente.

5. In generale è sicuramente meno rischioso tacere che parlare.

6. Mai l'uomo è padrone di sé come quando tace..........

10. Il silenzio può talvolta far le veci della saggezza per il povero di spirito, e della sapienza per l'ignorante.

12. È proprio dell'uomo coraggioso parlare poco e compiere grandi imprese; è proprio dell'uomo di buon senso parlare poco e dire sempre cose ragionevoli.

Tutte regole contarie all'andazzo moderno, che insegna prima di tutto a dire cazzate e poi a smentire di averle dette Il che regala doppia visibilità sulle televisioni, sui giornali, su quel pantano chiamato «social».


Per la serie «La fattoria degli animali»

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Semplice traduzione per una scritta peraltro intuitiva anche per chi non conosce lo spagnolo. E un sorriso. Il titolo lo riconoscete, vero? E anche l'autore? Più difficile ricordarsi dell'anno di pubblicazione, ve lo dico io (dopo averlo controllato, confesso): 1945. La prima traduzione italiana apparve nel 1947, edito da Arnaldo Mondadori Editore.

"Vedete? Cosa vi avevo detto? Li hanno messi tutti in castigo!"

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