Sabato, 04 20th

Last updateLun, 12 Set 2022 10am

Donato Sabia e uno stentoreo annunciatore

Visite: 558

 

Due copertine delle riviste italiane che per tanti anni ci hanno aiutato a conoscere il nostro sport. A sinistra, la testata federale del marzo 1984 fissa il successo di Sabia ai Campionati europei in pista coperta a Göteborg. A fianco, una strana smorfia dell'atleta rubata dall'obbiettivo di Vittorio Muttoni per la rivista «Atletica Leggera» (giugno - luglio 1987): dalle bretelle della maglietta (Pro Patria Osama) si deduce che era una competizione di club, quasi sicuramente la Coppa dei campioni, disputata all'Arena Civica di Milano, durante la quale Sabia vinse gli 800 metri, davanti al francese Lahbi. Poi portò il suo contributo anche alla staffetta 4 x 400, ultima frazione, stimata in 45.7

Ho dei ricordi miei di Donato Sabia, che se ne è andato qualche notte fa, in un ospedale di Potenza, a raggiungere il suo papà morto solo qualche giorno prima, ennesime vittime di una bestia immonda che sembra che nessuno, al momento, riesca a domare. E, come tutti i vecchi, ho piacere raccontarli, 'sti ricordi, a modo mio. Ammesso che a qualcuno interessino e mi stia ad ascoltare. Altrimenti, fa tanto lo stesso.

La prima parte della mia storia inizia al Campo Comunale di Busto Arsizio intitolato a Carlo Speroni, gran podista degli anni 1910 - 1925: pista, cross, strada, primo italiano a correre più di 18 km in un'ora, gli daranno un lavoro come custode del campo sportivo, dopo aver partecipato a un paio di Olimpiadi ('20 e '24). Dunque sono a Busto, come mai e a che fare? Mi ci aveva chiamato Renato Tammaro, ispiratore della Riccardi Milano e organizzatore della «Pasqua dell'atleta», tappa fissa degli esordi primaverili, ogni anno. E i miei ricordi erano vividi di belle gare della «Pasqua» che andavo a vedere da giovinetto, con treno Piacenza - Milano e ritorno. Salvo qualche rara interruzione, erano sempre state le pietre malandate della Civica Arena milanese a far da cornice alla manifestazione atletica che tanto cara era all'Arcivescovo di Milano, chiunque egli fosse, che quasi sempre impartiva la Sua Santa Benedizione agli atleti. Io non portavo nessuna benedizione, che ci andavo a fare allora a Busto? Andavo in virtù del mio mestiere di imbrattacarte delle pagine sportive del «Giornale di Brescia», che a quel tempo mi pagava, con grande regolarità devo dire, lo stipendio mensile? No, non proprio, Tammaro mi aveva assoldato, con mia gran sorpresa, come annunciatore in campo, quello che chiamano tutti speaker, l'inglese fa sempre snob. Come mai? Con tanti altri speakettari che c'erano su piazza, Milano e dintorni abbondava, proprio a me lo veniva a chiedere? Mi intrigava, ma Tammaro, come tutti gli assidui frequentatori di ovattate stanze arcivescovili, aveva un tono paterno, convincente e benedicente. Scoprirò poi, e vi renderò partecipi delle motivazioni. Ebbene, anduma a Busto.

Era il 26 maggio 1984, un sabato. C'era parecchia gente sulla tribunona bustocca. In campo un buon schieramento di atleti che andavano per la maggiore, con qualche rinforzino straniero, il biondone ariano Carlo Thränhärdt e il suo clone Dietmar Mögenburg esperti nello sfidare la legge di gravità. Ma gli occhi erano per il cittadino di Barletta, per li brianzolo bititolato europeo e mondiale cantato da quella gran persona che era Paolo Rosi, per il bambino di Altofonte. Microfono in mano, tacabanda. Impianto efficientissimo, per una volta, normalmente non funzionavano mai e doveva accorrere il custode del campo; la mia vociona, amplificata da qualche milione di decibel complice una acustica che si stampava sulle gradinate quasi fossero cannonate, spaccava i timpani, e non solo quelli, a tutti. Segnacci dai federali presenti, intervento di elettricisti a regolare il micro, ma era la voce da regolare. Scrisse Dante Merlo sulla rivista «Atletica Leggera»:" Non facciano neppure a tempo a chiedere a....che uno stentoreo annunzio dello speaker, per l'occasione Ottavio Castellini, ci fa sobbalzare sullo scranno. Sono le 15,33 e la riunione è incominciata da appena tre minuti". Io tuonai a tutto volume, chissà le maledizioni:"Marco Martino ha lanciato a 66.30, nuovo primato nazionale del disco".

I dischi stavano ancora sfarfallando quando Stefano Tilli fece un dispettaccio a Pietro Paolo, sui 100. Ce la mise tutta, tempo modesto in una pessima giornata di freddo e pioggia, ma voleva dimostrare che dovevano tener conto anche di lui per la staffetta da portare in California. La parola ancora a Merlo Senior:"Chi invece incanta, scatenando l'entusiasmo della platea, è Donato Sabia, che affronta i 500 metri con la determinazione di chi sa cosa vuole, incurante della mancanza di lepri e punti di riferimento. La gente...scarica e raddoppia il suo entusiasmo sul corridore potentino...L'apparechio segnatempo non si ferma quando Donato taglia il filo, ma lo speaker già anticipa che è successo qualcosa di grosso...". Aho, troppo forte 'sto speaker! E fatemelo dì! Ero concentratissimo, scandivo io mentalmente i secondi, forse anche i centesimi. Dovevo cercare di non distrarmi dalla insistente e non richiesta pressione di Enzo Rossi, che mi si era piazzato alle costole fin dall'inizio e martellava: dì questo, dì quest'altro, guarda i 100, occhio a Cova, citalo, citalo,...Non serve dir chi era a quei tempi Enzo Rossi, a me veniva solo la voglia di dirgli: A' Enzo, vaffan...vaffanzum, vazzanzum...come cantavano i cinque di «Amici Miei», il Perozzi, il Conte Mascetti, l'architetto Melandri, il prof. Sassaroli e il Necchi. Ma Enzo Rossi, era Enzo Rossi, non perchè era commissario tenico, ma perchè lo conoscevo e lo sopportavo.

Donato fece tutto da solo, anche gli altri furono bravini, ma stettero sempre dietro. Infine l'annuncio: miglior prestazione mondiale, 1:00.08, europea e italiana, ovvio. Forse, è ancora europea, me par.  Mi affido alle note di Guido Alessandrini, che scrisse per la rivista federale, per i puntuali dettagli tecnici:"...questo 1:00.08 è stato ottenuto con passaggi regolari di 23.2 ai 200, 34.6 ai 300, e soprattutto 46.8 ai 400 con chiusura in solitudine totale poco oltre i 13" nell'ultima frazione di 100 metri. Segno che con un avversario spalla, Sabia sarebbe sceso sotto il minuto, il che è un bell'andare". Preconizzava il prof. Carlo Vittori, non uno qualunque:"Se si velocizzasse fino a 15.5 sui 150 metri, farebbe 45 sui 400". Il resto della stagione '84 di Donato Sabia meriterebbe altra narrazione, e, soprattutto, altro narratore. 

Salutai Busto Arsizio, dove non ho mai più avuto occasione di tornare. Qualche sera dopo, ricevetti a casa una telefonata di Renato Tammaro:"Contento? Bella Pasqua, due grandi primati...E tu potrai dire di aver fatto l'annunciatore di un primato mondiale, dovresti sentirti orgoglioso...". "Sì, certo, una bella soddisfazione...". "Grazie per essere venuto, ci saranno altre occasioni...Ciao, buonasera". "...sera...". Sapete perchè vi racconto tutto questo? Perchè non ho nipotini cui raccontare che "tanti anni fa il nonno fece l'annuciatore ad una gara di atletica dove un tal...". Però, ancor oggi, mi sento orgoglioso. E soprattutto sono stato fortunato. Mi raccontò una volta il mio amico Roberto Pegoiani, bravissimo rugbista bresciano, che si presentò al presidente del suo club e gli chiese un piccolo aiuto economico, lui lavorava e per allenarsi con gli altri doveva chiedere ore che il padrone gli tratteneva dalla busta paga. Il presidente tenne un sermone lacrimevole da cui si capiva che non avrebbe scucito neppure un centesimo, e alla fine gli chiese:"Ma hai pagato la tessera annuale di socio del club?". E il povero Roberto dovette cacciare la quota, oltretutto. A me, in fondo, è andata meglio.

Aprile 2020: resistere, resistere, resistere

Visite: 393

Ho girato, prima di andare a dormire la notte scorsa, la pagina del mese di marzo del calendario cui Chantal, Pietro e Marco hanno dato bellezza con le loro fotografie. Un gesto normale in altri tempi, scaramantico oggi: quasi a volersi lasciar dietro, per sempre, un tempo che non avrei / avremmo mai pensato di essere costretti a vivere. È il primo giorno del mese di aprile, giorno che in tempi di spensierata fanciullezza riservavamo alle burle, ai ritagli di quaderni scolastici a forma di pesce. Pesce d'aprile, era. Pesce d'aprile non è. Non è tempo di scherzi, non lo era un mese fa quando un idiota mi enunciò la sua stupida teoria che quel virus era tutto una burletta inventata per farci stare a casa. Che era un idiota lo sapevo da molto prima. Oppure il suo fratello gemello che alla televisione inglese affermò, con non dissimulato compiacimento, che 'sta febbriciattola era una arlecchinata inventata dagli italiani per stare a casa e non lavorare. Ben spalleggiato da quel parrucchiere arruffato che è il suo capo, il quale ha sposato la teoria di suo padre, talis pater talis filius, che dichiarò, in favore di telecamere, che lui era andato al pub tutta la vita e non avrebbe mutato abitudini per un po' di febbre. Buon pro gli faccia la sua pinta di lager, o di bitter, o di dark.

Aprile, mese dei molti proverbi saggi e antichi. Che però, al momento ci consolano poco. Ci aspetta almeno un altro mezzo mese di clausura. Almeno, ma non andrà così, temo. E poi? Aprile, quest'anno, mese della Santa Pasqua, della croce sul Golgota, ma anche, per chi crede, della Resurrezione. Ciascuno, a modo suo, ci creda, e che sia la resurrezione di una società diversa, dire nuova sarebbe troppo impegnativo.

Per molti italiani, io fra questi, aprile è anche il mese che ci ricorda quei nostri nonni, padri, zii, che combattereno per liberare questa terra dall'immondizia del nazifascismo. Ci ricorda la Resistenza, forse l'unico momento in cui tante parti diverse, spesso contrastanti, si unirono con un unico fine. Doveva essere un'Italia diversa, non lo è stata, oggi men che mai. Ma proprio per questo dobbiamo far appello a quei valori e a quella volontà individuale, per se e per gli altri. Resistere alla malattia, resistere al ritorno di ombre inquietanti. Resistere, resistere, resistere.

E adesso la foto che ci regala una prospettiva singolare della diga di Valvestino e del suo ponte, qui a pochi chilometri da casa mia, lo dico per gli amici lontani che Navazzo e la Valvestino non conoscono. Con l'augurio che anche il nostro carattere ad affontare questa momentanea terribile avversità sia altrettanto saldo: quella imponente struttura è lì dal 1962. Dio voglia che resista per sempre.

Dove: Lago di Valvestino - Apparecchio: NIKON D300S - Lunghezza focale: 8.0 mm - Ottica: 8.0 - 16.0 mm f/1.4 - 5.5 - Tempo esposizione: 1/800 - Diaframma: f/8.0

Uno spettro allarmante s'aggira per l'Europa

Visite: 454

    

Uno spettro s'aggira per l'Europa, scrivevano nel 1848 Carl Marx e Friedrich Engels, e si riferivano al comunismo che spaventava i borghesi. Oggi dobbiamo fare molta attenzione ad un altro spettro, di colore nero che si aggira pericolosamente per l'Europa. Uno spettro che chiamano mellifuamente sovranismo ma che altro non è che fascismo. Due vicende di oggi, di segno opposto, hanno suscitato la mia attenzione, due vicende che hanno al centro delle bandiere: quelle che nel 1956 sventolarono per qualche giorno a Budapest in segno di libertà dal giogo dell'Unione Sovietica, e un disegno che ricorda il valore di due giovani greci che ammainarono la barbara bandiera del nazismo sul Partenone. Uno di quei giovani di allora è morto oggi, all'età di 98 anni, ad Atene. Nelle foto: gli ungheresi su un carrarmato sovietico che avevano fermato (immagine di cui sono riconoscente al sito corriere.it) e il disegno che ricorda il gesto dei due ragazzi greci nel 1941.

Ungheria 1956, Ungheria 2020. Che differenza. Allora i cittadini ungheresi scesero nelle strade contro i carrarmati invasori dell'Unione Sovietica. Oggi sono proni ad un nuovo dittatore, che hanno voluto, quindi non hanno nulla di che lagnarsi. Un grande futuro alle spalle. Invece l'Europa, se ha un minimo di dignità, non può tacere, non può accettare supina, immobile, sempre paralizzata quando invece servirebbe la sua presenza. Il coronavirus non può essere una foglia di fico.

Grecia 1941, Grecia 2020Manolis Glézos era il simbolo della resistenza contro i nazisti. Glézos è morto oggi, all'età di 97 anni, in un ospedale di Atene, dove era stato ammesso per una gastroenterite. Il generale De Gaulle lo defininì "il primo combattente della Resistenza in Europa" per aver osato, nel 1941, ammainare la bandiera nazista dall'Acropoli di Atene. L'evento, che segnò per sempre la sua giovinezza e la sua vita, avvenne nella notte del 30 maggio 1941, mentre i nazisti occupavano la Grecia, Glézos salí in cima all'Acropoli passando per una grotta, con Lakis Santas, compagno di lotta e amico. Insieme riuscirono ad ammainare la bandiera nazista dal pennone e a scappare senza che le guardie si rendessero conto di nulla.

Nato il 9 settembre del 1922 nell'isola di Naxos, Glézos si trasferì ad Atene all'età di 12 anni con la sua famiglia, e iniziò a militare nella gioventù antifascista. Durante quella notte, all'età di 19 anni, strappò via la bandiera con la svastica che svettava sull'Acropoli e la sostituì con quella greca. Fu arrestato e imprigionato più volte durante l'occupazione, e negli Anni '50 e '60 perché comunista. All'epoca il partito comunista greco (KKE) era fuorilegge. Si è unito al partito Eda (Sinistra Democratica) negli Anni '60 prima di essere eletto deputato e poi parlamentare europeo con i socialisti negli anni '80. Nel 2000 è diventato membro del partito della coalizione Sinistra e Progresso, diventata poi Syriza di Alexis Tsipras. Durante la crisi (2010-2018) ha partecipato alle manifestazioni anti-austerità. Nel 2015 ruppe con il partito di Tsipras.

Dedicato a Gianni Mura, maestro non solo di sport

Visite: 402

Volevo farlo ieri, subito, come si fa in un giornale vero. Anche quello dove lavorai io, piccolo ma reale, dove imparai il significato del sostantivo femminile «immediatezza», la reazione all'arrivo di una notizia inattesa ma troppo importante per essere ignorata. E allora, spianti la pagina, o una sua parte, e cambi un testo, una posizione in pagina, un titolo, la sua dimensione. Ma questo spazio è fatto a modo suo, anzi a modo mio. E allora, ho dedicato la giornata di ieri a rileggere un po' di pagine di alcuni libri di Gianni Mura che arricchiscono la mia biblioteca. Ne ho tolti due, in particolare, dai loro anfratti, due che rispondono ad altrettante passioni della mia vita. Una è stata lo sport, una amante che mi ha dato molte delusioni. Avrei voluto essere bravo come lui e dare alle stampe anch'io un «Tanti amori», libro del 2013, edito da Feltrinelli, che raccoglie una serie di conversazioni con Marco Manzoni, studioso della dimensione etica dello sport.

Ho l'abitudine di scrivere, al termine della lettura, qualche parola sulla pagina bianca che precede, di solito, il frontespizio di un libro. È un gesto di presunzione, dare un giudizio, ma riguarda me, e solo me. Lessi due volte il libro di Mura, nel 2015. Tra le varie piccole e grandi stupidaggini che scrissi, una annotazione dice:"Dovrebbero renderne obbligatoria la lettura nelle ridicole ore di educazione fisica nelle scuole". Da tempo credo fermamente che andrebbe introdotta nelle scuole una serie di lezioni su «Sport e Etica». Gianni Mura sarebbe stato il docente ideale.

Riproduco qui il primo capitolo del libro (che Mura dedicò a Enzo Biagi, Mariangela Melato e Pietro Mennea) intitolato «L'amateur», termine che ha un duplice senso: il dilettante sportivo, ma anche colui che ama. Scegliete la vostra interpretazione. Mura è stato un artigiano delle parole e un innamorato dello sport. 

«L'amateur» di Gianni Mura

L’amateur nello sport, tradotto alla lettera, è il dilettante. Preso in un senso un po’ più esteso è un innamorato di quello sport. Credo che il suo desiderio sia provare delle emozioni se lo pratica, e anche se lo guarda.

A volte qualcuno mi chiede:” Chi è uno che fa sport?”. Per me uno che fa sport è il tipo in tuta che incrociamo sulla Paullese verso le sette di sera mentre corre rischiando la pelle: ogni tanto guarda il cronometro perché si sta allenando per una maratona, e fino a due ore prima ha lavorato in fabbrica. Fa sport per sé, probabilmente non avrà mai il suo nome sul giornale né uno sponsor, e sa che la prima regola è superare i propri limiti, prima di battere gli altri.

Se fai 100 metri in 18 secondi e dopo tre mesi li fai in 17.8 ti dici: “Però, due decimi, guarda qua”. Poi magari non migliori più, ma continui a provare a buttare lontano un giavellotto o a pedalare. E continui a provarci perché lo sport è una forma di esplorazione di se stessi, è come se uno fosse curioso di vedere fin dove può arrivare con questa sua sfida.

Penso che all’origine della scelta di uno sport ci siano motivazioni forti. Perché oggi un ragazzo decide di fare il pugile? Vuol dire pigliare molti pugni in faccia e altrove, e faticare parecchio. Ci sono sport più leggeri, o anche leggiadri, come il tennis o la ginnastica artistica.

Oggi non c’è più una scelta obbligata come nel primo dopoguerra, quando in Italia producevamo soprattutto ciclisti e pugili perché era la via più veloce per cercare di uscire dalla miseria. Ci sono altre possibilità e un giovane ha un ampio ventaglio di scelte, specie se vive in una grande città: il calcio, il nuoto, gli sport di squadra cole il basket e la pallavolo, e anche le arti marziali, che pare facciano molto bene all’auto disciplina.

Quindi, se scegli lo sport è perché ti appassiona.

All’inizio, ad appassionarti è probabilmente qualcuno che pratica quello sport ai massimi livelli: su chi inizia, il richiamo del campione è molto forte. Non è un caso, per esempio, che ai tempi di Thöni, Gros e poi anche di Tomba si fossero moltiplicati gli sciatori in erba. E non è nemmeno un caso che ci fossero tanti pallavolisti ai tempi della grande Italia di Velasco.

Ma poiché passione è una parola che può degenerare anche nella vita (“L’ho uccisa perché l’amavo”, come nel cosiddetto delitto d’onore), l’amateur deve avere una passione non contenuta tra paletti troppo stretti, però moderata. In caso contrario, il confine tra amateur e ultrà diventa sottile e la passione può anche trasformarsi in una faccenda di ordine pubblico o da codice penale, diventa una passione che deraglia.

Tante persone fanno sport in solitudine, solo per mantenersi in forma. Poi ci sono gli altri con cui competere, ma non è obbligatorio averli. Se c’è un confronto sportivo, e qualcuno deve vincere e qualcun altro perdere, è molto meglio che accada senza grandi drammatizzazioni. Le drammatizzazioni emergono quando c’è di mezzo un interesse economico e più è grande, più si drammatizza. Come nel calcio, che è pieno di soldi e che ha sostituito i costi ai valori. Che non sono la stessa cosa.

Nella rubrica Sette giorni di cattivi pensieri che tengo su “Repubblica” ho cercato di fare questo gioco di parole tra valore e costo parlando di due gesti entrambi espressione di un impulso irrefrenabile, anche se di segno opposto.

Uno è quello del calciatore Moscatelli del Chievo, che dopo aver segnato un bel gol si mette a piangere perché ha sbagliato, a pochi minuti dalla fine, quello del 3 a 0 sul Napoli: sarebbe stata la sua prima doppietta in serie A. L’altro, per nulla edificante, è quello del difensore dell’Inter Chivu, che non visto dall’arbitro tira un pugno in faccia a Rossi del Bari: poi sarà squalificato per quattro giornate.

Ho concluso il pezzo così:” Se dovessi fare una squadra compro Moscatelli, non perché costa di meno, ma perché vale di più".

Una volta, se parlavi di valori a Bearzot non c’era possibilità di essere frainteso, oggi se parli di valori si pensa subito al fattore “costi”. Il valore di un giocatore qual è? È 12 miliardi virgola 8. Non era questo che intendevo.

Abbagnale impopolare? No, solo sano buon senso

Visite: 398

Ho letto una dichiarazione, che in parte riporto di seguito, di Giuseppe Abbagnale,  oggi presidente della Federazione italiana canottaggio. Dichiarazione inascoltata visto l'esito della riunione del Comitato Olimpico Internazionale. Incredibile ma vero: il CIO ha emesso un comunicato per dire che allo stato attuale non si può prendere una decisione ultimativa. Se qualcuno vuol scommettere con me fin d'ora: nel mese di giugno diranno che i Giochi Olimpici sono rimandati. Ha detto Abbagnale:

"Vista la situazione attuale, secondo me il CIO, farebbe bene a rinviare di un anno i Giochi Olimpici di Tokyo. So che la mia potrebbe essere una posizione impopolare, ma aspettare ancora uno o due mesi per prendere una decisione definitiva, metterebbe a rischio la salute dei nostri atleti. Perché in questo periodo qualsiasi sportivo già sicuro o in corsa per andare a Tokyo si allenerà al massimo e nel nostro sport, come in tanti altri, non lo si può fare a casa. Quindi, malgrado tutte le precauzioni che si possono prendere, non si può essere al 100% sicuri di non correre rischi. Io spero che tra due mesi questo incubo sarà solo un brutto ricordo, me lo auguro fortemente, ma ad oggi c'è una situazione drammatica e per me la tutela della salute dei nostri ragazzi viene prima di tutto".

Condivido pienamente la posizione del signor Abbagnale. Ho osservato con disgusto i vergognosi tiramolla del calcio, della Lega, degli organismi pedatori internazionali, che dovrebbero essere messi tutti sul banco degli accusati e condannati perchè con la loro assurda difesa di interessi hanno fatto sì che si favorisse la diffusione del virus fra i giocatori. Colpevoli, alla pari, anche questi ultimi, bravissimi a dare pedate in una palla rotonda. In questo caso hanno dato calci al buonsenso. Riscoprire l'istituto del rifiuto? oppure dello sciopero? Troppo difficile, c'è di mezzo il premio partita...altrimenti come mi compero la prossima Lamborghini?

Oggi il Comitato Olimpico Internazionale guidato dal tremebondo herr Bach naviga a vista, aiutato dal Primo Ministro giapponese, Shinzo Abe, e il ministro dello Sport, signora Seiko Hashimoto, che hanno dichiarato che la preparazione dei Giochi va avanti e che il 24 luglio si apriranno come previsto. Entro il 24 luglio sarà tutto risolto? Tutti guariti? Tutti in forma olimpica? Invece di continuare a buttare soldi nella preparazione, in Giappone e fuori dal Giappone, dire chiaro, oggi, i Giochi quest'anno non si fanno. Invece fanno l'esatto contrario e si nascondono dietro un patetico «allo stato attuale non ci sono le condizioni per...». Dovrebbe invece dire, per dimostrare che il cervello non è un optional: li rinviamo al 2022, quando in Cina ci saranno i Giochi Invernali. E si tornerebbe, per una volta, ai tempi andati. Fino al 1992, estivi o invernali che fossero, i Giochi si celebravano nello stesso anno, solo dal 1994 sono sfalsati (per motivi di bottega, per spremere più quattrini). Me lo ricordava il mio amico Paolo, che sa di sport come pochi altri e che, persona intelligente, quando non è sicuro di una data, un nome, una medaglia, si documenta prima di dare aria ai denti. Lo spostamento di due anni consentirebbe anche il recupero economico delle grandi aziende mondiali che appoggiano il CIO. Cina e Giappone potrebbero trovare, volendo, forme di collaborazione, sono vicini di balcone. Vedarem...

Sapete tutti, mi auguro, chi è stato Giuseppe Abbagnale? Sì? Mi fido...ma tanto per scrivere qualche riga in più, aggiungo...Giuseppe con il fratello Carmine e il timoniere Peppino Di Capua hanno vinto due  titoli olimpici nel «due con timoniere» (che adesso hanno tolto dal programma olimpico, Dio sa perchè, cambiare tanto per cambiare) avvenne a Los Angeles '84 e Seoul '88. Giuseppe era stato in finale (settimo) a Mosca '80. E tanto per non farsi mancare niente, con gli stessi compagni di voga, aveva vinto un argento anche a Barcellona '92. Alla gloria olimpica aggiungiamo quella mondiale: sette vittorie fra il 1981 e il 1993. La foto dell'armo Giuseppe e Carmine Abbagnale e del timoniere Di Capua l'ho ripresa dal sito sportfair.it che ringrazio.


Sei qui: Home