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Sergio Parisse , il rugby da prendere a esempio

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Qualche giorno fa ho letto un' intelligente intervista a Sergio Parisse, giocatore di rugby di origine argentina, italiano da molti anni, uomo importante per la nostra Nazionale di palla ovale, vive a Parigi, gioca attualmente per lo Stade Français, antico club creato nel 1883. Parisse non ha potuto schierarsi (per un risentimento muscolare) con la squadra azzurra che sabato, a Firenze, ha affrontato la tosta Georgia, che vuole soffiare il posto all'Italia nel tempio rugbistico del torneo «Sei Nazioni». Sabato gli azzurri hanno strappato il successo: 28 a 17, come già sanno gli appassionati. Così come sanno che era la seconda volta che i due «15» si affrontavano: la prima fu il 6 settembre 2003, ad Asti, e anche allora vinse l'Italia 31 a 22, gli azzurri erano allenati dal neozelandese  Sir John Kirwan, uno dei giocatori determinanti nel successo degli All Black (29 a 9 alla Francia) nella prima Coppa del mondo, nel 1987, che si disputò parte in Nuova Zelanda, parte in Australia. 

L'intervista cui mi riferisco è apparsa sulle pagine sportive di «la Repubblica», intervistatore Massimo Calandri. Mi sono piaciute alcune risposte che riprendo qui. 

«...in questo momento, il rugby può - anzi: il rugby deve - essere un esempio. Soprattutto in Italia. Vivo a Parigi però mi tengo informato e so quel che sta accadendo nel mio Paese. Non voglio entrare in questioni politiche, ma è chiaro che ci sono pochi punti di riferimento. Nessun rispetto per i ruoli, per le regole. Per la parola data. Oggi uno dice una cosa e il giorno dopo fa l'esatto contrario. È l'ultimo arrivato? Fa lo stesso: contesta le cariche più importanti. Non ha carisma, esperienza, competenza, coerenza: ma parla, dà lezione a tutti. Sbaglia, si contraddice come se nulla fosse: senza preoccuparsi di aumentare la confusione, di perdere credibilità».

«In tutte le grandi nazioni ovali ci sono ragazzi che vengono da altri Paesi, culture. Parigi è una città multietnica: è questo il futuro. Non voglio abbassarmi al livello di chi dice "un nero non può essere italiano". O peggio ancora, di chi strumentalizza politicamente i pregiudizi. Non si alzano muri nel rugby, non c'è esclusione: chi arriva, la subito parte della squadra. E non importa il suo peso, l'altezza o il colore della pelle: se giochi con me, sei uguale a me. E so che da quel momento ti difenderò alla morte, perchè tu farai lo stesso. Nel nostro sport il rapporto umano - e il gruppo - vengono prima dell'allenamento o della partita. La prima parola è: accoglienza. Dovrebbe essere così anche nella vita di tutti i giorni. Il problema dell'immigrazione? Credo che per un bambino straniero la cosa migliore sia farlo entrare in una squadra di rugby: sarà accolto, si sentirà parte di qualcosa. Diventerà subito un valore aggiunto».

«Tornare in Italia? Ma solo se sarà come vorrei io. Un paesi di rugbisti».

Nella sequenza fotografica scattata da Pietro Delpero, Sergio Parisse impegnato in una touche durante l'incontro Italia - Fiji, il 16 novembre 2013, allo Stadio Zini di Cremona. La partita si concluse sul punteggio di 37 a 31 per gli azzurri.


Quando la scienza si discute al bar, col «Pirlo»

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Ho appena finito di leggere (L'Espresso, numero 45, 4 novembre 2018) una bella intervista del giornalista Gigi Riva a Silvio Garattini, fondatore (nel 1963) dell'Istituto di Ricerche farmacologiche «Mario Negri» di Milano. Ne propongo alcuni passaggi e li dedico al mio amico Elio Forti, grande teorizzatore della «scienza da bar», della «politica da bar», tutto passa attraverso il bar, dove si discutono i massimi sistemi dell'universo. Per chi non è indigeno dell'area gardesana e quindi non lo sapesse, chiarisco che con il nome «Pirlo» si indica quello che altrove viene chiamato «Spritz». 

«Siamo tutti dei perdenti quando le impressioni e le opinioni dominano sui fatti».

«Stabilire se qualcosa fa bene o male non tocca alla letteratura o alla filosofia, tanto meno all'arte. Lo dice la scienza, pur con tutti i suoi limiti, è pur sempre una attività umana. Dunque può sbagliare, però ha capacità di autocorreggersi. Nell'arte la ripetitibilità è un plagio, nella scienza è fondamentale. La scienza non conosce la verità ma viaggia nella direzione per scoprirla».

«In Francia le vaccinazioni obbligatorie sono undici ma là il Parlamento non se ne occupa né i partiti ne fanno oggetto di campagne elettorali».

«Per stabilire un rapporto di causa - effetto ci vuole un metodo, un sistema che non è un'opinione. Faccio un esempio. Molti ricordano l'anno delle mucillaggini nell'Adriatico. Si disse: è il Po che trascina al mare un mucchio di porcherie. L'anno dopo non c'erano più mucillaggini e il Po portava forse qualcosa di ancora più tossico. Un professore di Trieste ebbe l'ardire di citare Ovidio che già parlava del fenomeno. E fu insultato».

«Preferisco pensare sia un momento di transizione in cui regna la confusione perchè non siamo ancora in grado di maneggiare i grandi progressi della scienza. Prendiamo internet. È un grande bene il poter trovare in pochi secondi le informazioni. Però la giurisprudenza non ha considerato il pericolo derivante dalla possibilità di mettere in circolazione le idee più stupide e strampalate. Da qui l'idea che chi ha più "like" è il più bravo».

Parlando del suo Istituto. «...tutti i ricercatori hanno creduto nell'idea di fondo: fare il bene del prossimo senza speculare, restando indipendenti dalla politica, dalla religione, dalla finanza, dall'industria. Pronti a collaborare con chiunque ma mantenendo la nostra caratteristica».

Parlando di politica e potere. «Il potere vero non esiste. Esiste solo il potere condizionato. Anche chi vuole fare le cose migliori del mondo si trova a dover scendere a compromessi».

L'obiettivo di Pietro Delpero ci racconta...

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Dopo le parole, poche? tante? troppe? le immagini, belle e mai troppe. Stavolta tutte di Pietro Delpero, che si è dovuto sfangare tutti i momenti della iniziativa - promossa da questo sito con l'adesione del progetto «Sognando Olympia», con la collaborazione locale dell'Atletica Baldini Agazzano. Solitamente Pietro fa squadra con la moglie Chantal e con il cognato Marco, ma stavolta Marco era il «regista» della mattinata dietro la macchina da presa, avendo montato le immagini (uniche, mai viste) di quella finale olimpica del salto triplo a Messico 1968. Lo stesso Gentile, complici Franco Bragagna e Guido Alessandrini, aizzati da Fabrizio Donato e Paolo Camossi - un futuro come cabarettisti - hanno visto e rivisto quelle immagini, il particolare quel quinto salto di Pippuzzo (lo chiamava sua madre, ci ha raccontato con affetto palese) mai visto prima, tesoro gelosamente conservato da quel grande inarrivato appassionato che era Luciano Fracchia, messo a disposizione dei due promotori di questa giornata dal figlio Giorgio, per il quale ogni ringraziamento è inadeguato alla disponibilità dimostrata.

A tutti gli amici che hanno partecipato a questo affettuoso e corale omaggio al protagonista Giuseppe Gentile, agli atleti che ne sono stati attori primari, al pubblico, attento e commosso in certi momenti, ai due conduttori Franco Bragagna e Guido Alessandrini, a tutti gli amici silenziosi che tanto hanno fatto senza mai apparire, ai giornalisti che ci hanno dedicato la loro attenzione, perfino superiore alle nostre aspettative, la Collezione Ottavio Castellini - Biblioteca internazionale dell'atletica e il Progetto Sognando Olympia, rivolgono l'invito ad aprire questo link e a ritrovarsi e ritrovare le emozioni di quella mattinata. Grazie a tutti coloro che ci hanno raggiunto con il loro pensiero e il loro affetto, facendoci superare anche qualche difficoltà. Per non dimenticare. E noi non dimenticheremo. Queste immagini sono a disposizione di tutti, per espresso desiderio di Pietro Delpero. Un «Grazie» è il soldo minimo con cui ripagarlo.

Questa foto dice più di tante parole: esprime l'interesse che hanno suscitato le immagini offerte in visione per la prima volta, dopo cinquanta anni. Beppe Gentile commenta i suoi salti seduto in mezzo agli atleti e al pubblico. Accanto a lui, a sinistra, Fabrizio Donato; dietro Walter Brambilla, Roberto Costaldi e il baffuto Giuliano Fornasari; difronte, Daniele Greco, Guido Alessandrini e  Gian Luigi Canata (lo scatto è di Pietro Delpero)

2465km, 51 giorni, media 48km333m al giorno

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Avete letto il titolo? Lo avete assimilato bene? Sapete di che cosa si tratta? Parecchi, mi risulta, hanno seguito la vicenda con curiosità, altri, quelli che conoscono il protagonista, con affetto. «Quello del fatto» risponde al nome di Aurelio, detto Elio, detto «il Geo», Forti, di professione (lui dice passata, chiamandosi fuori come pensionato, finirà che lavorerà più di prima) geometra in quel di Navazzo. Lo aveva pensato, studiato, programmato, e, soprattutto, deciso: avrebbe camminato, solitario, dal suo bel piccolo borgo aggrappato al Monte di Gargnano, fino a Nazaré, cittadona portoghese, marinara, turistica, affacciata sull'Oceano Atlantico. Ma sarebbe arrivato fin là non direttamente, eh no, troppo facile, ragazzi. Partenza da Navazzo, primo obiettivo Lourdes, Francia. Da lì, su verso il nord per entrare in Spagna, Euskadi, Paesi Baschi, e ricongiungersi con il percorso classico de «El Camino de Santiago», e arrivare a Santiago de Compostela. Una volta onorate le spoglie di Giacomo il Maggiore, apostolo di Gesù, gambe in spalla, anzi ben attaccate al suolo, e via, giù per la Galizia, verso la terra del soave e profumato vino di Porto, le rive del Douro, Barcelos, patria del gallo nazionale, nord del Portogallo: destinazione Fàtima. Insomma, in fatto di santi, apparizioni, devozioni, l'Elio nostro non si è fatto mancare niente.

Archiviata (il termine non è quello giusto ma non me ne viene un altro) la parte spirituale, intima, vissuta intensamente e silenziosamente, come è dell'uomo, una ultima cinquantina di chilometri per raggiungere Nazaré. Il nome rimanda a Nazareth, e le connessioni ci sono. Altro santuario? No, o meglio sì: un santuario laico e godereccio che ricorda tanti brindisi - con «porticciolo», leggi vino di Porto - e grigliate di pesce lusitano e spaghettate italiche, eredità di tanti buontemponi che scoprirono la bella città di mare, la sua gente, grazie ad un gemellaggio partorito da...una fantasia malata di sport, di corsa, di atletica. Poi, per un bel numero di anni, venne tutto il resto, di tutto, di più. Corsa podistica a parte.

Fine della corsa, anzi della marcia. Partenza alle 5 del mattino di mercoledì 29 agosto, dalla chiesa di Navazzo, rientro nel pomeriggio di lunedì 29 ottobre, sotto il diluvio. Due mesi, 51 giorni di camminare, gli altri dati leggeteli nel titolo. Smagrito, abbronzato, stanco, appagato intimamente, Elio è stato non dico festeggiato, ma abbracciato da un ristrettissimo gruppo di amici alla Pizzeria Running Club (nomen omen) di Navazzo. Se era per lui, non avrebbe voluto neppure questa piccola festicciola, ma non ha potuto schivarla. Sulla parete della saletta campeggiava un grande striscione (opera del solito amico Roberto Scolari) con un enorme «Bentornato, Elio!», con tanto di km, giorni, luoghi e loghi, quello del club che nel cuor gli sta, il GS Montegargnano, e il solito immancabile «Sognando Olympia». E, in aggiunta, dalla fantasia del giovane Michele, artefice delle pizze in questo bell'indirizzo gestito ormai da qualche annetto dalla famiglia Tavernini, è uscita la «Pizza del Pellegrino», la prima presentata a Elio, dai prossimi giorni figurerà stabilmente nellla carta del locale. Si è tirato tardi, fra ricordi, aneddoti, profumo di Porto.

Nelle foto, scattate da Marco Forti, in alto, Enzo Gallotta e Franco Capuccini (a sinistra), Elio Forti e Ottavio Castellini, posano ai lati  del bel cartellone; nell'altra a fianco, Elio presenta la prima Pizza del Pellegrino, insieme a Michele, giovane e fantasioso mastro pizzaiolo, seduto Franco Scarpetta, una vita spesa nella Amministrazione comunale di Gargnano; sotto il gruppetto degli amici che si sono trovati attorno a Elio.

Visioni di una umanità sempre uguale a se stessa

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A volte sembrano frasi abusate, modi di dire stantii, però quasi sempre ci azzeccano. Prendete «niente di nuovo sotto il sole», banale no? quante volte lo sentiamo ripetere? Fino alla noia. Eppure...Ieri sera, ho cominciato a leggere «I fratelli Karamazov», romanzo di un gigante della letteratura russa, Fëdor Michàjlovic Dostoevskij. Alla faccia, era ora! Ho sempre pensato, desiderato, leggere i grandi autori russi, ma alla fine ho letto poco, pochissimo. Tempo fa, vedendo i tre libretti, edizione Famiglia Cristiana, su una scaffale del mio amico don Alessandro glieli ho chiesti in prestito. «Sua Santità», come lo chiamo per celiarlo, spesso mi fa da consulente librario, suggerendomi letture. In questo caso, è stata una scelta personale.

Prime pagine, una introduzione della curatrice di questa edizione, una dettagliata biografia del signor Fëdor, e poi la Prefazione dell'autore, di Dostoevskij medesimo. In quelle righe ho trovato la frase che mi ha fatto pensare alla immutabilità della umanità. Dostoevskij sta parlando di quello che definisce  «il mio eroe», Alekséj Fëdorovic Karamazov, e scrive:«Per me egli è degno di nota ma sinceramente dubito di riuscire a dimostrarlo al lettore. Il fatto è che egli è un personaggio non ben definito, non chiaramente delineato. Del resto sarebbe strano, in un tempo come il nostro, pretendere chiarezza dalla gente». In un tempo come il nostro pretendere chiarezza dalla gente...Dostoevskij iniziò a scrivere questo romanzo nel 1878, fra il 1879 e il 1880 una rivista russa lo pubblicò a puntate, nel 1881, a soli 60 anni, Dostoevskij  morì.

Son passati 140 anni, siamo nel 2018, ditemi: in un tempo come il nostro, esiste qualcuno che pretende chiarezza dalla gente? Forse la si pretende, ma quanto a riceverla la vedo molto, molto, dura. Continuo a leggere «I fratelli Karamazov».

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