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Quando a Brescia esisteva l'atletica, quella vera

Il mio amico Giovanni Baldini mi ha fatto dono (insomma, dono, mi ha dato una bella rogna, che comunque ho accettato senza pensarci sù troppo) di settanta faldoni di risultati originali di gare di atletica fatte in Lombardia negli anni '70 e '80. Materiale cartaceo raccolto da suo zio Claudio Enrico, maestro dello sport, responsabile tecnico della Federlongobarda per molti anni, il quale portava a casa tutte queste carte prima che finissero regolarmente al macero. Poi sono venuti i computer, i programmi di database, e la carta, almeno in questo caso, è quasi del tutto sparita. Prima di liberarmi di questa montagna di polvere, ragnatele, carte mangiate dai topi (che finirà a Castelfranco di Sotto, in un ambiente messo a disposizione dell'amico Gabriele Manfredini, noi non buttiamo nulla) le faccio passare una ad una. Un esercizio di memoria, molto utile, a me almeno. Proprio stamane, mi sono imbattuto nel «verbale» di una garetta regionale disputata sulla pista bresciana del Campo Scuole di via Morosini (così veniva identificato all'epoca, l'anno dopo qualcuno propose di intitolarlo a Sandro Calvesi) il 21 aprile 1979, quindi inizio stagione. Trent'anni fa, poco manca.

Pagina 4, metri 5000 junior / senior, prima serie, 16 arrivati, seconda serie, 18 arrivati, terza serie, 16 arrivati. Embè, che c'è di strano? Quasi nulla, ho detto quasi...infatti diamo una occhiata ai risultati, e solo a quelli degli atleti di società bresciane. Tre sotto i 15 minuti (Salvatore Freni, Sergio Gandaglia, Giancarlo Dusi), dieci sotto i 16, tredici sotto i 17. In aggiunta due serie di allievi impegnati sui tremila metri, 32 ragazzi. Mi son chiesto: ma oggi, anno del Signore 2018, quanti corridori bresciani coprono i 5000 metri su una pista e con un cronometro che li aspetta all'arrivo, in meno di 17 minuti? Non ho la risposta, magari sono decine e decine, io non frequento più e me ne occupo ancor meno. Ascolto però, osservo da lontano, un fenomeno che mi intristisce: la progressiva distruzione dei valori veri di questo sport, nobile sport, chiamato atletica leggera. A fronte di una confusa, sfuggente, orgia di gare, passeggiate, giri attorno al campanile, quattro passi lungo le sponde di qualche ruscello, scarpinate in onore del radicchio, su e giù per valli e monti con dislivelli da capogiro, le gare, vere, sulle piste stanno sparendo, le gare invernali di corsa campestre, cavallo di battaglia del mio maestro Bruno Bonomelli, sono ridotte a poche unità.

In quei lontani giorni i vari Gandaglia, Faustini, Freni, Poli, Febbrari, Gabossi, Serina, Rodelli, Amati, Vecchi, Vergine, e chi vuole metta tutti i nomi che gli vengono in mente, parlavano in termini di minuti, secondi, primati personali da migliorare, o che avevano sfiorato. Penso ai risulati degli 800, 1500, 3000, 10 mila metri di quegli anni. Penso a Franco Volpi che portò a Brescia, negli anni '50, i primati italiani dei 5 e 10 mila metri. Penso a Riccardo Azzani, ad Albertino Bargnani, a Giulio Salamina, a Gianbattista Paini, tutti «prodotti» di Bonomelli e delle sue società Corebo, Fomapla, e le altre. E oggi? Tempi? Cronometro? Non sanno neppure cosa sono. Le discussioni vertono, al massimo, sulla qualità del tessuto del feticcio moderno: «la maglietta tecnica». Mi vengono in mente i maratoneti degli anni '60 e '70 con magliette di cotone, al massimo bucherellate, tagliuzzate con la forbice! Ron Hill, britannico, fu forse il primo a correre con una maglietta traforata, credo da lui. Però vinceva la maratona di Boston in 2 ore e 10, conquistava il titolo di campione d'Europa nel 1969 sulla strada dal villaggio di Maratona ad Atene con un calore devastante. Mi pare di sentire: vecchio retrogrado, contro il progresso. Ma non dite fesserie! È avanzata solo la qualità dei tessuti, è sprofondata quella dell'atletica. Segno generale della società nella quale siamo immersi come un liquido appiccicoso: conta solo l'apparenza, non la sostanza. 

Rimettiamo l'atletica in pista, per favore. Valutiamo l'effettivo valore di questa massa informe di gente che corre, passeggia, saltella, bene, per carità, meglio così che scaldare poltrone e sofà, o affollare irose tribune calcistiche. Ma io sono rimasto fermo ad una frase di una delle persone che ho ammirato di più nel mio lungo circumnavigare attorno al «pianeta atletica»: il professor Carlo Vittori, il quale sempre affermava, con vigore, "l'atletica si fa in pista". Si specano soldi, e per di più pubblici, per fare piste un po' ovunque, e poi lasciarle semideserte. Chissà, magari verrei smentito clamorosamente da moltitudini di corridori con tempi strabilianti. Sarei il primo ad esserne felice. E pensare che fra le discipline che ho amato e studiato di più posso elencare la corsa campestre e la maratona, entrambe fuori dalla pista. Contraddizioni dell'uomo!

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