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Siamo ciò che conserviamo, parola di Picasso

 

Stavo salendo una scala e facevo attenzione a dove mettevo i piedi. Alzando lo sguardo una visione mi ha distratto, fulminato, forse ho vacillato. Era da tempo che non mi soffermavo su un dipinto, su «quel» dipinto, con tanta intensità. Mi son seduto sugli scalini, ed ho osservato quei colori. Anche senza chiudere gli occhi, il motorino chiamato fantasia ha fatto contatto e si è messo a ronzare sommesso. A quella tela, 140 centimetri per 60, acrilico su tela dice l'artista, fu dato un nome profetico: «La Creazione», e aveva una numerazione, numero 4. L'anno, 1988. L'autore: Martino Gerevini, un artista del quale Bruno Munari (sapete chi è? No? Andate a cercare il suo nome sul vostro tablet, e forse qualcosa imparerete su questo gigante dell'arte moderna) scrisse:"Le sue opere non sono una stilizzazione di un mondo esteriore, ma sono la visualizzazione di sensazioni nel proprio mondo plurisensoriale. Non sono quindi «riproduzioni» di qualcosa che già si conosce...ma sono da guardare come quando si ascolta una musica. Capire attraverso i sensi invece che con domande e risposte". Munari aveva una grande stima per l'artista Gerevini, ma soprattutto per la persona. E così avrebbe dovuto essere per tutti: Martino era un prezioso distillato di umanità, di cultura, di operosità, infondeva serenità e tranquillità in chi lo avvicinava, vuoi per lavoro, vuoi per amicizia. Io ringrazio Dio che me lo ha fatto conoscere e frequentare per trentasette anni, un dono raro, che custodisco gelosamente. 

Quel quadro ha una storia, sua e mia. Era il frutto di uno dei «momenti creativi e innovativi» dell'artista Gerevini, che non si è mai ripetuto, ha sempre esplorato nuovi modi di esprimersi, materiali nuovi ma vecchi (il legno dei caratteri di stampa, i ritagli di carta delle lavorazioni tipografiche), ha sondato le opportunità che offrivano le nuove tecnologie, purtroppo ha avuto poco tempo. «La Creazione n.4» faceva parte di una nuova «linea» datata 1988. Conosco, da vicino, un tale che in quella tela disse di vedere il lago, il Montegargnano, l'abitato di Navazzo. Martino, che era tanto buono, non lo contraddisse e lo assecondò perfino quando il temerario insistette per «promuovere» (beh, insomma...) quell'opera artistica a copertina di una gara podistica che si era andata trasformando da simpatica festa paesana a format internazionale. Proprio nel 1988 l'iniziativa pedestre mutò pelle: la 15esima edizione de «La Camináa» divenne la prima della «Diecimiglia del Garda». L'opera pittorica «La Creazione n.4» diverrà logo, immagine (sostantivo che piace moltissimo ai moderni, tutto è diventato immagine, senza sostanza) della corsa di Navazzo, l'anno dopo, nel 1989. E le copertine del programma ufficiale erano curate dallo stesso Gerevini, che metteva igual impegno sia che facesse un depliant sportivo sia che preparasse le opere da esporre alla Galleria L'Espace du Triangle a Parigi. Spesso quell'opera fu esposta nelle «personali» del'artista, e figurava nei cataloghi che accompagnavano le sue mostre. Perfino la copertina del programma di una «Diecimiglia» figurò in un catalogo (AAB Edizioni, 1996): con quell'accostamento, Martino volle rinsaldare il legame fra il suo lavoro quotidiano di grafico alla Tipografia Apollonio e la sua vena artistica. E lo fece tante altre volte.

Che mi succede? Dietro a quei colori ne intravvedo altri. Non più pitture adesso, ma colori troppo vivaci di magliette e mutandoni/mutandini di uomini e donne che corrono, sudano, spesso sono stravolti dal caldo che rende la fatica ancor più faticosa, e sgraziata. Ho chiesto di riavvolgere la pellicola, e mi son apparsi, in trasparenza, i volti di tanti corridori cui sono stato affezionato. A un certo punto, c'è stato un fermo immagine, ed è apparso il sorriso di una mamma, e il sorriso di una mamma per la sua creatura non ha eguali. Leah Tanui alza nel cielo di Navazzo il suo ultimo «prodotto», la piccola Miriam. Leah, una donna di superiori qualità, moglie di Moses, lui correva in giro per il mondo, ma lei stava a casa ad amministrare oculatamente i dollari che il marito atleta riportava al focolare, ad Eldoret; poteva amministrare una azienda, non solo una famiglia. Leah, cui mi legava affetto per il tanto tempo passato nella loro casa, laggiù, nella ammaliante Rift Valley. Leah, che se ne è andata, dopo breve malattia, nell'agosto del 2008: lo seppi mentre stavo nel mio ufficio dentro lo Stadio Nazionale di Pechino, il famoso Bird's Nest, nido d'uccello, e mentre si avvicinava l'apertura dei Giochi Olimpici.

E dietro i volti di Leah e di Miriam, quello sempre molto sorridente, salvo quando s'incazzava, di Moses Tanui. Un grande amico, un guerriero, un lottatore; lo chiamavo «Simba», leone vero non da cartoni disneiani. Ho dei ricordi bellissimi di lui, uno su tutti: le cene che faceva apparecchiare e servire nel suo ufficio in segno di grande rispetto per i miei amici Gianni Gianluppi, Carlos Fernández Canet e Jean Pierre Durand, e per me, quell'anno che girammo in lungo e in largo per la Rift. Serate indimenticabili, e Moses incantava i miei amici con le sue espressioni italoinglesi. Sportivamente, sapete chi è stato Moses Tanui nel mondo della corsa lunga e della maratona? No? Peccato, documentatevi. Sotto l'immagine della madre e della bimbetta, le scene cambiano. Un podio, Moses, al centro, alza le braccia del brasiliano Artur Castro e del suo connazionale Paul Tergat; sotto l'arrivo di Moses. Era il 1992. Questa era la «Diecimiglia del Garda», fra arte e arte del correre.

D'improvviso lo schermo si fa nero. Poi si riaccendono le luci. «Operatore ridammi il mio film», ma ormai se ne è andato, una sola proiezione come una volta nella sala del cine parrocchiale. Nel mio personale «Cinema Paradiso» le luci si sono abbassate, e io sono da solo. Ma non voglio andarmene, rimango seduto sugli scalini. Osservo la «La Creazione n.4», la luce che irradia dall'alto, Dio quando si è messo di buzzo buono per creare l'universo doveva essere immerso nella luce. «Siamo ciò che conserviamo», ha scritto Pablo Picasso, materialmente o spiritualmente. Io mi ostino a conservare quelle immagini: Martino, Leah, e tutto il resto che, di questa avventura, mi è rimasto dentro.


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