Tutto è in bilico, un monito per ciascuno di noi

Sì, Mastro Martino, quando si è trattato di scegliere, per il calendario che avevo deciso di realizzare in tuo onore, una tua opera per il mese di gennaio 2021, non ho avuto dubbi: «doveva» essere questa. Per molte ragioni: la bellezza, l'immaginifico che ci sta dentro, i colori di cui tu sei stato artista sopraffino, ma soprattutto per il titolo, quel «Tutto è in bilico» che è il più appropriato motivo di riflessione per il momento drammatico che stiamo vivendo. Non desidero aggiungere nulla al momento, per non rovinare il piacere sia di osservare l'opera sia di leggere le eleganti righe scritte da Fausto Lorenzi, uno dei migliori colleghi che ho avuto nella mia permanenza nella redazione del «Giornale di Brescia», era tanto tempo fa...Solo un breve annesso: nei primi giorni di ogni mese questo spazio pubblicherà il quadro di Martino Gerevini che appare sul calendario. Un modo per ricordarlo lungo questo 2021 che abbiamo davanti in equilibrio precario.

La nostra opera - Titolo: Tutto è in bilico 2 - Anno: 1986 - Acrilico su tela - Formato: cm 100x100 - Collezione privata

 

Tra tipografia e arte visuale un percorso di misure e scatti

di Fausto Lorenzi

Martino Gerevini amava definirsi operatore visuale. Metteva sullo stesso piano la manualità del tipografo e la ricerca attenta ai linguaggi della modernità essenziali, puliti, privi di ogni orpello e ridondanza. Era passato dai caratteri a mano disposti nei telai sui banconi della vecchia stamperia e dall’uso di forbici e colla al mouse ed alla grafica digitale, muovendosi, in parallelo con la sapiente attività professionale, nell’ambito dell’arte visuale. Non ha conosciuto la frattura fra arti e mestieri che ha segnato tanta parte del Moderno, anzi, proprio l’aggancio a problemi tecnici, formali e linguistici specifici dell’attività tipografica è stata per lui una griglia attraverso cui filtrare l’esplorazione di una soggettività più lirica e misteriosa, irriducibile a una fredda meccanica formale, pronta sempre al trasalimento, allo stupore.

Si è basato su una organizzazione di modelli da rovesciare e trasformare in piccole ma mirabolanti avventure, trepide e stupefatte, in territori sconosciuti, in spazi vibratili e metrici, in strutture di luce-movimento, fino a piccole galassie di forma-colore. Si capisce allora come per lui l’arte astratta o concreta – alla quale è imputato di segnare un limite, un “grado zero” oltre il quale è vano procedere – si proponesse come occasione per cambiare continuamente il punto di vista, affidandosi alla mutazione come costante della realtà.

L’arte concreta è quella basata sull’organizzazione degli elementi linguistici della pittura e della scultura. Le strutture primarie alla base dei lavori di Martino – specie il quadrato, il rombo, l’esagono, i numeri, le lettere – erano ricondotte ai dati elementari della superficie, della linea e del colore, nel ritmo misurato delle variazioni e combinazioni di tali elementi. La ricerca di forme e colori puri mirava a definire anche gli aspetti psicologici, di necessità interiore e carica energetica delle sue realizzazioni. Geometria e colore a dare un ritmo ai sondaggi nel mare delle emozioni.

Pochi giorni prima di morire, nel 2010, alla vernice di una mostra a quattro mani con don Renato Laffranchi sul Cantico delle Creature, Martino Gerevini aveva proclamato: “Io sono felice”. Parlava di felicità delle creazioni grafiche e pittoriche che nascevano da una mano che è stata davvero innamorata, a partire proprio dall’etica del lavoro ben fatto, a regola d’arte, e altrettanto dell’inno alla vita, di semplicità francescana, che andava cantando. Le opere che palesavano il modo stesso in cui erano costruite rivelavano infatti la tensione a trasformarsi in una sorta di diaframma trasparente, per fondare relazioni chiare e pure tra le cose e gli uomini. Fino a campi di forza costruiti quasi di nulla, di elementi minimi di simmetria e asimmetria o di modulazione della superficie per generare sorprese continue, anche solo limitandosi sulla soglia di senso.

Gerevini aveva imparato da Bruno Munari, che l’accompagnò in più mostre e cataloghi, come le invenzioni più ardite nascano da processi di semplificazione, dall’impiego di materiali quotidiani semplici (lui usava anche bande per le prove di colore, smarginature e ritagli dei menabò tipografici, per collage ilari e giocosi) pronti sempre a suggerire la metamorfosi degli opposti. Aveva imparato a vedere che le forme si trasformano l’una nell’altra, generando infiniti punti di vista, e sapeva che fra contare e raccontare c’è forte affinità, sicché usava numeri, cifre, simboli geometrici come viatici ai sogni ed alla meditazione. Mirava soprattutto a trasporre cose e immagini “sottratte” alla banalità e funzionalità quotidiana (e perciò rubate alla serie, all’usura consumistica) e ad affidare loro una delega d’ironia e d’effrazione, di rivolta minima, di inafferrabilità e leggerezza. Un gusto di sortilegio che creava un mondo parallelo, associando una componente di rigore, di calcolo, ad una di alea, di gioco, rispetto alla normalità d’uso delle strutture ordinate.

Gerevini, maturato nel clima di arte programmata, ottico-cinetica e visuale, ha sperimentato anche opere basate su ritmi combinatori che le rendessero ogni volta “aperte”, cioè diverse nella percezione dello spettatore. Per Gerevini, operatore visuale nel mondo dell’arte applicata, diventava quasi un obbligo d’etica professionale ricondursi ai dati basilari di superficie, linea e colore “oggettivizzati” nel linguaggio della grande comunicazione. Ne ha fatto un abito di progettazione di cose “giuste in se stesse”, nell’organizzazione degli elementi linguistici della pittura e della pagina tipografica.

C’è una millenaria tradizione di intarsi e incastri di strutture elementari che ha fondato la nostra percezione del senso dell’ordine, sicché anche ogni colore è portatore di una sua geometria interna, da cui scaturisce una certa struttura. Quadrati, rettangoli, triangoli, esagoni, rombi, cerchi, losanghe si iscrivono in una trama accertata, che pare declinarli in un linguaggio corale, una memoria collettiva. Ma le strutture primordiali, proprio perché replicabili nel tempo, sono idee e si possono tradurre in materie e dimensioni differenti: il senso dell’ordine s’instaura dunque entro una dimensione sfuggente, che si carica anche d’accenti fiabeschi, stupefatti, come generata da una matrice d’eventi latenti. Perciò le forme, le figure della geometria nei lavori di Gerevini non chiudono lo spazio, ma stanno dentro lo spazio, come se vi galleggiassero.

Negli anni più recenti Martino, da semplici forme geometriche combinate in modo da creare l’illusione della profondità e del movimento, era venuto inseguendo anche movenze biomorfiche, ma soprattutto sempre più s’era orientato verso una sorta di scenografia di libere forme geometriche, addentellate l’una sull’altra su vari piani di colore, come una musica di energie vibrate.

Insomma, le geometrie in Gerevini si sono ribellate alla piattezza, cercando di vivere oltre le due dimensioni. E non ha avuto paura di ritornare a richiami figurali, per quanto decantati, ridotti a profili, anche nel ricorso crescente al collage ed al computer rispetto alla pittura.

I migliori tipografi hanno sempre insegnato che è nella pulizia della pagina che si fa grande un libro, una locandina, un manifesto, un logotipo, un marchio. Il carattere tipografico è il corpo che hanno le parole per rendersi visibili: le idee, i messaggi, sono già nella forma stessa delle parole, e se il corpo non è coerente con le parole, si genera un disturbo percettivo. E la funzione è anche nel farsi guardare. Gerevini anche nei lavori di annuncio di eventi e di pubblicazione di annuari e repertori di dati e performances sportive ha ripassato tutta un’avventura novecentesca, tesa a fondere nell’identico processo formativo il disegno industriale e le arti visuali. Saggiava le virtualità iconiche dei caratteri tipografici in composizioni di poesia visiva: l’antica legge artigiana dell’opera “a regola d’arte” si accompagnava al bisogno di restituire all’alfabeto - alle parole ed alle immagini del nostro tempo - una forza estetica di rigore, severità e chiarezza comunicativa, sia quando ha usato una forma statica che diventava scansione ritmico-energetica, sia quando ha inscenato un’aritmia sincopata, a indicare con la fusione jazzistica di linee e colori la strada del movimento sul piano.

Un’arte - applicata e no - che si è mossa contro l’immagine gridata, contro il fragore, l’inquinamento visivo, la falsificazione. Ha usato un vocabolario per un immaginario collettivo fatto di eticità e rigore, dove la geometria, la misura corrispondesse a quella dello sforzo atletico, dei risultati sul campo di gara, della sfida - senza barare -  ai propri limiti. Anche in questi lavori legati a precise committenze, ma diventati una lunga consuetudine per più decenni, Martino Gerevini ci ha mostrato come i gesti quotidiani di ciascuno debbano essere rigorosi, limpidi, essenziali. Attraverso l’attività tipografica ed editoriale e la ricerca d’artista visuale sapeva bene come dall’incontro con forme e colori venisse qualcosa di più d’una semplice comunicazione, ma uno scatto in avanti, un’energia come quella dell’atleta che tende al traguardo, mirando alla precisa cadenza dei passi ed alla precisione del percorso.