Ciclismo eroico? No, ciclismo disumano

Se il ciclismo è uno sport che stimola il vostro interesse, la vostra passione, allora fate un salto alla libreria più vicina (quando apriranno i catenacci delle nostre attuali prigioni) e chiedete il libro di Albert Londres «Tour de France, Tour de Souffrance». Non è una novità editoriale, fu pubblicato, per la prima volta in Italia, nel 2008 dalla casa editrice milanese Excelsior 1881. Lo potete trovare, a prezzo scontato, anche su qualche piattaforma di vendite online. Ve ne consiglio la lettura per alcuni buoni motivi. In ordine sparso: è scritto in maniera limpida, facile, leggera (lettura consigliata ai tanti imbrattacarte fantasiosi dei giorni nostri), ha fotografie in bianco e nero degne dell'obiettivo di Gianni Berengo Gardin, e infine ci aiuta a vedere questo sport con occhi meno imbambolati. Uno sport che altro non era che sfruttamento di povera gente disposta a qualsiasi sacrificio, privazione, sofferenza, umiliazione, pur di racimolare qualche soldo da riportare a casa, magari pedalando con la stessa bici con cui avevano percorso altre strade di Francia. Oppure nella speranza di riottenere il posto di strillone di giornale, posto lasciato per inseguire una chimera. Se poi voi volete tenerli chiusi, dico gli occhi, e immaginare l'epica dei racconti roboanti, beh, fatti vostri.

Il libro racchiude un tesoretto di scritti di questo giornalista, nato a Vichy, datati 1924. Cronache del Tour de France. Tutta una scoperta. Io mi son preso licenza (e non ne avrei diritto...) di riprodurre un capitolo, una tappa, corredandolo con un paio di foto da premio fotografico. È l'articolo finale che Londres scrisse per «Le Petit Parisien», pubblicato il 20 luglio 1924, alla partenza dell'ultima tappa (la quindicesima), che aveva preso l'abbrivio a Dunquerque per entrare al Parc des Princes di Parigi: 343 chilometri, alla media di 23,245.

Vinse (primo italiano) Ottavio Bottecchia, Botescià alla maniera francese: maglia gialla sempre, dal primo all'ultimo giorno, quattro successi di tappa. Fu un trionfo la sua seconda Grande Boucle (già nel 1923 era stato secondo dietro all'idolo francese Henri Pélissier): 226 ore 18 minuti e 21 secondi passate su una bici che pesava circa dieci chili, se non di più! Trentacinque minuti e mezzo di vantaggio sul lussemburghese Nicolas Frantz, uno dei grandi protagonisti del ciclismo di quegli anni. Due volte secondo dietro a Bottecchia (1924-25) vinse poi le edizioni del 1927 e 1928. Finita la carriera agonistica, divenne direttore sportivo; negli anni '50 ebbe nella sua squadra uno dei migliori scalatori di ogni tempo, «l'Angelo della Montagna» Charly Gaul (vinse il Giro del 1956 rimasto famoso per la drammatica scalata del Monte Bondone, perse quello del 1957 per una altrettanto famosa pisciata, e poi vinse anche il Tour del 1958).

Non c'era solo l'Ottavio quell'anno 1924 sulle strade francesi del diciottesimo Tour. Trascrivo i nomi degli altri italiani, di quelli che figurarono nella classifica finale: Bartolomeo Aimo (quarto), Ermanno Vallazza (13esimo), Ottavio Pratesi (19esimo), Giovanni Rossignoli (31esimo), Giuseppe Ruffoni (32esimo), Enrico Sala (34esimo), Luigi Vertemati (36esimo), Angelo Erba (41esimo), Vincenzo Bianco (46esimo), Emanuele Luigi (47esimo), Augusto Rho (52esimo), Felice Di Gaetano (53esimo).

 

Erano partiti in centocinquanta, ne tornarono sessanta!

di Albert Londres

Ne arriveranno sessanta. Potete vederli, non sono certo dei fannulloni.

Per un mese hanno lottato con la strada. Le battaglie avevano luogo in piena notte, all'alba, sotto i colpi del mezzogiorno, a tastoni, nella nebbia che provoca le coliche, contro il vento impetuoso che li piega di lato, sotto il sole che, come nella Crau, voleva fonderli con il loro manubrio. Hanno preso in pugno i Pirenei e le Alpi. Montavano in sella alla sera, alle dieci, e ne scendevano solo la sera dopo, alle sei, come è successo dalle Sables-d'Olonne a Bayonne, per esempio.

Andavano su strade che non erano le loro. Gli si sbarrava il cammino. Davanti ai loro nasi si chiudevano i passaggi a livello. Vacche, oche, cani, uomini finivanotra le loro gambe. Non era quella la tortura. La tortura li ha presi in consegna alla partenza e li accompagnerà fino a Parigi. La tortura sono le automobili. Per trenta giorni, queste vetture hanno piallato la strada a fianco dei corridori. L'hanno piallata in salita, l'hanno piallata in discesa. Sollevando nuvole enormi di polvere. Gli occhi che bruciavano, le bocche secche, loro hanno sopportato la polvere senza dire nulla.

Hanno pedalato sui sassi. Hanno divorato il pavé sconnesso del Nord. La notte, quando faceva troppo freddo, si proteggevano la pancia con vecchi giornali. Di giorno, si versavano brocche d'acqua sui corpi troppo coperti. E così innaffiavano la strada fino a che il sole non asciugava le loro maglie. Quando cadevano e si ferivano braccia o gambe, rimontavano in sella. Al primo villaggio, andavano in cerca del farmacista. A volte era domenica e, come a Pézenas, il farmacista rispose:«Non sono in servizio». Allora il corridore non l'ha preso per la collottola, ma gli ha detto:«Capisco, signore» e ha ripreso la sua lunga strada.

Vedrete arrivare Bottecchia, ex muratore friulano. Bottecchia non vi guarderà con i suoi occhi, ma solo con la punta de naso e la punta del suo naso è tagliente come la lama di un coltello.

Vedrete arrivare Mottiat. Mottiat vestito di blu. Vi rivolgerà un sorriso divino e vi guarderà con occhi riconoscenti,come se foste stati voi a fornirgli la corsa e il piacere di averla fatta.

Vedrete arrivare Tiberghien. Gli ho proposto di cucirsi sulla maglia le lettere d'amore che trovava nella borsa ai punti di ristoro, tra una coscia di pollo e una fetta di salame di Vire. Ma Tiberghien mi ha risposto:«Mi servirebbero due maglie».

Vedrete arrivare Frantz, questo ragazzo che è stato oggetto dell'ammirazione degli sportivi e che ha portato a termine il Tour de France come se bevesse un bicchier d'acqua. Aveva l'aria di andarsene in bicicletta comew se tenesse un libro in mano e leggesse un romanzo d'avventure per bambini. Sono quasi certo che non si sia accorto di essere arrivato a Parigi e che continuerà a pedalare per ancora sette o otto mesi.

Vedrete arrivare Cuvelier e Alancourt. Terribili come botoli ringhiosi. Mordono alle gambe tutti quelli che si trovano davanti, fossero anche enormi sanbernardo sportivi come Brunero, Aymo e Lucien Buysse de Loothernhulle.

Vedrete arrivare Alavoine, detto Jean XIII, il re della scalogna.Il vero posto di Alavoine non è sulla strada, ma all'Académie Française. L'Académie è una istituzione che dovrebbe non solo salvaguardare la lingua, ma rinvigorirla anche. E a tale scopo, Alavoine è l'uomo che fa per lei.Andate a trovarmi uno scrittore, un maresciallo, un duca, un avvocato, un poeta che, durante la salita dei Pirenei, distrutto dal mal di mare, invece di dirvi:«È ben triste provare una infelicità così grande nel corso della tappa più scabrosa», possa gridare:«Mi fa impallidire, in una tappa così maligna, essere messo a terra da un incidente così superficiale!».

Vedrete arrivare Rho. Guardatelo bene. Porta il numero 268. È la copia di D'Annunzio. Vedrete Garby, di Nevers, che piangeva sui Pirenei. Vertemati, che ogni giorno non mangiava meno di tre polli, dodici uova e due cosciotti d'agnello. E Vertemati non è grasso.

E vedrete Kamm, che, sin dall'inizio e sempre pedalando, mi confidava i suoi progetti per il futuro. In passato era un venditore al Petit Parisien.

Un bel destino.

«Ehi, signore!», mi gridò all'inizio, tra Brest e le Sables. «Credete che mi riprenderanno al lavoro?».

Tra Perpignan e Tolone si avvicinò alla mia automobile.

«Per quel posto di venditore...se potessi essere mandato nell'Orne, visto che la mia famiglia è lì, mi fareste un piacere».

Tra Nizza e Briançon:

«Farei richiesta per il dipartimento dell'Orne, se fosse possibile. Altrimenti prenderò quello che mi daranno».

Ieri a Dunkerque, alle undici di sera, uno stradista del Tour pedalava a tutta velocità in una via oscura. Vide l'ombra di un uomo.

«Il controllo!», gridò. «Dov'è il controllo?» Quello stradista temeva che Bazin avesse chiuso bottega. Bazin è il cronometrista che possiede un orologio con una lancetta meravigliosa chiamata «sdoppiatore-compattatore» e che è la ghigliottina dei corridori.

Era Kamm e mi riconobbe.

«Ricordatevi del mio posto al Petit Parisien !», gridava nel deserto della città, filando a trentacinque all'ora!

Ma ce ne sono alcuni che non vedrete.

Una sessantina di "lanterne rosse" si sono prse per strada in giro per la Francia. Non si sa cosa sia successo a questi uomini. Hanno rotto le ruote, soprattutto di notte. Per chiedere aiuto non avevano che le stelle, ammesso che ci fossero le stelle. Sono partiti, ma non arriveranno. Dove mai saranno?

Altri hanno lasciato, sfiniti, come quell'Archelais. Per sei tappe ha marciato, ostinato. Deluso dal fatto che gli assi non indossassero giacche alle cui falde attaccarsi. Poi, un giorno in cui voleva ancora continuare, sui Pirenei, mi sembra, Archelais non ce l'ha fatta più. Cadde, rimontò in sella. Ma invano. Non c'era più olio nella lampada. Allora, accecato dall'ira, sollevò la sua bicicletta e la scagliò contro il bordo della strada.

Qualcuno arrivò alla fine della tappa, ma quando ormai il controllo era chiuso. Erano fuori corsa. Così, a Perpignan, verso l'una del mattino:

«È qui il controllo?», chiese uno stradista, scendendo dalla sua bicicletta.

«Sì, ma è chiuso».

Allora il ragazzo iniziò a piangere ad alta voce.

«Non serve piangere, piccolo mio!», disse un bevitore di birra seduto in un caffè. «Sei stato bravo come gli altri. Hai fatto ciò che hai potuto».

Ci sono stati anche quelli che hanno mollato, come Curtel. Curtel, dopo ottocento chilometri, non avendo guadagnato che sei franchi e cinquanta, dichiarò nel suo dialetto che sarebbe stato meglio a casa sua.

Non vedrete Ugaglia, né Huot; alcune automobili li hanno "rettificati".

Ma vedrete il grande dolore di Thys e di Alavoine.

È stato il loro ultimo Tour. Erano pronti per vincerlo. Volevano finire in bellezza. La sorte e Bottecchia non hanno voluto così.

«Che tristezza!», mi disse ieri Thys, pedalando al mio fianco.

Allora Alavoine, che seguiva, lasciò cadere queste parole, senza sollevare il capo:«Sì, è davvero triste dopo quindici anni di corse fatte con coscienza, staccare i cavalli come un vecchio calesse nella polvere del vincitore».

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N.d.r. - Philippe Thys, belga, chiuse all'undicesimo posto; Jean Alavoine al quattordicesimo. Thys aveva trionfato in tre edizioni: 1913, 1914 e 1920, primo ciclista capace di tanto. Alavoine, francese di Roubaix, partecipò alla Grande Boucle undici volte: fu terzo nel 1909 e nel 1914, secondo nel 1919 e nel 1922. Corse l'ultimo Tour nel 1925, quindi non staccò del tutto i cavalli come racconta Londres: fu ancora tredicesimo.